Barbarie e fanatismo hanno un fondo di stupidità che supera i confini del tempo e dello spazio. Ciò spiega la ragione per cui certi fenomeni, che saremmo portati a relegare in un passato oscurantista, accadano e si ripetano in forme esasperate di odio nell’era del progresso tecnologico e scientifico. I talebani che fanno saltare in aria le statue millenarie del Buddha, Al Qaeda che distrugge a picconate un’antichissima moschea di Timbuktu, l’Isis che distrugge il patrimonio storico e artistico delle regioni sotto il suo controllo, tra cui un antico tempio dedicato a una divinità semitica nel sito di Palmira, sono i nuovi vandali dell’ XXI secolo che sfogano il loro rancore contro l’idolatria di un passato pre-islamico. Che senso ha prendersela con delle statue? Eppure, l’assenza di logica e razionalità nell’integralismo religioso di una cultura retrograda è la stessa molla che negli Stati Uniti spinge nella medesima direzione i fautori della degenerazione culturale che ha dichiarato guerra alle statue legate al passato coloniale e razzista. La rabbia, che si è scatenata dopo l’uccisione di George Floyd, dilaga e prende forma nel rito della cancellazione della storia di un paese che accusa se stesso di essere stato fondato sullo schiavismo, definito “sistemico”, cioè scritto nelle leggi e organico nell’amministrazione della giustizia. Così si abbattono le statue dei Confederati, gli Stati schiavisti del Sud, ma rischia anche quella di Abramo Lincoln che li sconfisse, aprendo la strada all’abolizionismo. Una insensata furia iconoclasta, nata nei campus statunitensi, che ha come obiettivo la “purificazione”, che include la censura di capolavori letterari e artistici considerati non conformi alle regole imposte dal nuovo movimento anti-razzista. Si vuole, in questo modo, espiare i crimini del passato, decontestualizzando fatti e personaggi dal loro periodo storico, e giudicandoli secondo standard morali del XXI secolo. Nulla sfugge al giudizio implacabile nell’epoca di Black Lives Matter: il colore della pelle di Kamala Harris è considerato dalla sinistra radicale americana troppo chiaro perché la vice di Biden possa difendere fino in fondo i diritti dei neri. Un’assurdità. Nemmeno il presidente sfugge alle critiche dei liberal più estremisti che lo considerano, oltre che troppo vecchio e troppo mite, troppo bianco. L’antirazzismo dilaga nei social media, nel mondo accademico, nelle istituzioni culturali , nello spettacolo. L’Academy Award Hollywood stabilisce che gli Oscar si assegnino preferibilmente a film “inclusivi”, che trattano temi legati al razzismo o al sessismo e hanno attrici di colore. Il sistema universitario pubblico obbedisce ai dictat del politically correct e per favorire l’accesso all’iscrizione di ragazzi afro americani, abolisce test standardizzati ritenuti per loro difficili. Ma, in questo modo, viene discriminata la minoranza degli asiatici americani, il primo gruppo etnico e quello dalle performance scolastiche più brillanti. Il multiculturalismo ha frammentato la società in numerosi gruppi, ognuno dei quali rivendica diritti diversi e spesso in conflitto tra loro, con il risultato opposto a quello auspicato. Invece di correggere forme di ingiustizia, ne crea di peggiori, per la foga risarcitoria a favore degli afro americani. Il senso di colpa bianco è reso cieco dall’anti razzismo che si rifiuta di vedere che la maggior parte delle uccisioni di neri a New York, Chicago e Washington è opera di altri neri. Come finge di ignorare che Gandhi aveva posizioni razziste nei confronti degli africani e Lev Tolstoj era schiavista. Si tenta di riscrivere la storia dell’America come di un paese criminale dove ai bianchi spetta il compito di espiare colpe ancestrali. Nel 2016, Hillary Clinton, sicura di vincere le presidenziali, rivolgendosi a un pubblico di facoltosi e generosi finanziatori della sua campagna elettorale, definì i bianchi poveri che sostenevano Trump “the deplorables”, i disprezzabili. L’America ha ormai toccato il fondo. L’ideologia identitaria si è impadronita dei progressisti bianchi, spostati sempre più a sinistra e, sorprendentemente, considerati sempre meno affidabili dagli elettori moderati neri e ispanici che non credono alle teorie intellettuali sul razzismo. Oriana Fallaci diceva che l’ideologia è il grande malanno del nostro tempo e i portatori del suo contagio sono gli intellettuali stupidi.