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Personaggi degli Iblei di ieri… di Domenico Pisana

Franco Antonio Belgiorno, scrittore, traduttore e giornalista
Tempo di lettura: 5 minuti

Un raffinato intellettuale, un letterato vivace e di spirito critico rilevante può definirsi sicuramente Franco Antonio Belgiorno., che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Modica euripidianamente appartato, quasi amante della tranquillità e della solitudine, di cui egli godeva nella sua inclinazione alla ricerca e allo studio.
Belgiorno è nato a Siracusa nel 1939, ma come suo padre, Franco Libero, si considerò sempre modicano. Giovanissimo a Modica, città dei suoi nonni e di suo padre, compie infatti studi irregolari. Viaggia in Italia, in Libia, in Grecia e in Francia. Nel 1969 emigra in Germania, dove compie alcuni anni di apprendistato per impadronirsi della lingua tedesca. Inizia a lavorare con la ZDF (Secondo canale della televisione tedesca) nel 1979 e, in seguito, come freelance per la Hessischer Rundfunk (Televisione dell’Assia). Viaggia in Spagna, Cecoslovacchia e Austria. Le sue doti e qualità intellettuali si mettono in luce non solo nella sua attività di giornalista e scrittore, ma anche di traduttore dal tedesco e dal francese. Tradusse per Leonardo Sciascia (Sellerio editore Palermo), per Domitilla Alessi (Novecento Palermo) per Jaca Book (Milano), Echter Verlag (Wuerzburg), Papyrus Verlag (Amburgo).
Belgiorno strinse legami di amicizia con illustri personaggi della letteratura contemporanea, da Leonardo Sciascia a Gesualdo Bufalino, da Vincenzo Consolo a Fortunato Pasqualino, con i quali intrattenne una corrispondenza fin quando rimase in Germania. Ha scritto quattro importanti libri fotografici con Ulf Langheinrich, per la Control Data di Germania – Minneapolis, dedicati a Modica, Cava lspica e a Piero Guccione, suo fraterno amico.
Come autore ha anche pubblicato Quaderno Tedesco (1974) e Zibaldone estero e casereccio (1979). In tedesco: Sizilien (1984), Antipasto (1985), Tomaten und Adel (1986), Auberginen & co (1987). Fra le principali opere da lui tradotte si segnalano Museo d’ombre di Bufalino e Il sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo.
Franco Antonio Belgiorno è deceduto nell’ottobre 2008 e i modicani hanno ancora vivi nel loro ricordo le sue lunghe passeggiate per le vie della città e il forte impegno per la valorizzazione dei beni culturali del territorio del Val di Noto, nonché la sua capacità di dare alla scrittura quel senso valoriale che rimane immutato nel tempo.
Di Belgiorno giornalista, scrittore di racconti, di narratore fine e acuto hanno parlato in tanti; mi piace in queste pagine tratteggiare invece il rapporto di Belgiorno con la città di Modica attraverso due testi: uno dal titolo “Teatro delle pietre e giardini sul cielo”, e il secondo, pubblicato, per le Edizioni Radio emmeuno, agli inizi degli anni ’90, dal titolo “Modica”.
Teatro delle pietre e giardini sul cielo” è un libro che definirei un “gomitolo di memorie”; in esso si trovano raccontati molti ricordi che Belgiorno trasferisce sulla pagina con la mano del giornalista e dello scrittore che sa entrare nel cuore delle cose, dei luoghi,(Ciarciolo, le taverne di una volta, la libreria Poidomani, il cinema Moderno, Modica alta etc,) e, ancora, dei personaggi( i carrettieri, Don Santino, i compagni di scuola,) e di aspetti particolari della tradizione modicana.
E tutto questo lo fa ricorrendo all’ironia e all’umorismo, a volte di stampo pirandelliano. Direi proprio che negli scritti di Belgiorno scorre la polemica come in Pirandello, “una polemica – direbbe Petronio – nello stesso tempo intellettuale e sentimentale…”.
Franco Antonio Belgiorno è stato uno scrittore che ha avuto con la città di Modica un rapporto franco e leale: direi che amava molto la città. A Modica ha dedicato un bel libro, che poco è stato evidenziato. Si tratta di un’opera che ci restituisce l’immagine della città della Contea secondo una linea interpretativa che supera i limiti, almeno come quadro complessivo, di quanto fosse stato scritto tra le fine degli anni ‘80 e ‘90. Il materiale raccolto dall’Autore ha una strutturazione che armonizza i dati storici, archeologici, topografici e paesaggistici propri di Modica; è reso, poi, caldo dalla sua esperienza esistenziale vissuta nella città iblea e ripercorsa con toni nostalgici.
Quando mi occupai, già nel 1990, del libro “Modica” in una mia opera di saggistica, ci fu tra me e Antonio Belgiorno, con cui non esisteva ancora rapporto di conoscenza, una cordiale corrispondenza dalla Germania, nella quale egli così scriveva:

Caro Dottor Pisana,
mi giungono oggi, graditissimi, il suo bel libro di poesie che ho voluto leggere subito, e la recensione sul mio “Modica”. Non mi ricordo se ho già avuto il piacere di conoscerla, ma tuttavia è come se mi avesse mandato un poco di casa. Fra le recensioni che sono state fatte su questa strana guida che guida non è, la Sua mi è sembrata quella che più ha saputo colpire l’idea che io mi ero fatta di un’operetta che divulgasse la nostra città così come essa è rimasta nella mia memoria. Lei che è poeta, sa bene quanto ci si impelaghi talvolta nella meste laguna della dimenticanza, e come è importante scrivere per salvare qualcosa, non fosse altro che la memoria stessa, nel mio caso assalita da mille cose, dal mio mestiere di giornalista in una terra che si può senza dubbio rispettare ma non amare, e dell’altra professione, che è d’amore, ed è quella dell’uomo che rimpiange gli attacchi che il nostro tempo fa a quell’altro, “il tempo della giovinezza in fiore”.
Grazie quindi doppiamente; soprattutto per il fatto che entrambi regali giungono da una persona che conoscevo solo per nome: Dormiente mi ha parlato spesso di Lei, e pur essendo stato quest’anno parecchie volte a Modica, non ci siamo ancora incontrati. Strano: non incontrarsi a Modica, dove giornalmente mi confronto col passato e col presente, e dove vado sempre alla ricerca di appigli, di persone che, come me, hanno ancora il culto del ricordo.
Desidero anche dirLe che le Sue poesie sono molto belle, tenere alcune, altre più amare, com’è di per sé la linfa della poesia stessa. Particolarmente mi ha colpito “I giorni”, in quanto delle gabbie troppo anguste di cui Lei parla, ne so qualcosa anche io.
Proprio in questi giorni sto scrivendo per una rivista tedesca un articolo su Bufalino – che è stato tradotto in tedesco -, e il confronto con questi temi, con la mestizia che essi portano, è stato quindi immediato. Sapevo della Sua attività di poeta, ma non sapevo che andasse così profondamente alle radici. E’ solo quello che io posso dirLe, perché la poesia, che un tempo mi accompagnò, è diventata sempre più ostica per me. Forse sono soltanto un giornalista che si è ancorato in un porto e non riesce a dar vento alle vele, forse anche un mediocre scrittore che cerca di ripristinare, di togliere i tabù ai veli che coprono la nostra esistenza di uomini dimezzati. Nel caso mio, essere dimidiati, è quasi un destino; anche se, e lo confesso, vivere fra due mondi è maniera di capire le cose doppiamente.
Sono anche contento che Lei abbia scritto con competenza su un brano di questo mio libro, “La ballata del pane che fu”. E’ quello il ricordo più immediato che vi ho posto, un motivo ritornante che è strettamente legato alla mia infanzia in via Ritiro, dove nella nostra casa sono cresciuto sotto lo sguardo di mia nonna Giorgia (che portava il nome del Santo a cui è stata dedicata una delle più belle chiese di Sicilia). Spero di conoscerLa la prossima volta. Mi conceda quindi di salutarLa con sincero affetto.
Antonio Belgiorno
Wiesbaden, 25 novembre 1990

Definire il libro “Modica” di Franco Antonio Belgiorno semplice guida sarebbe troppo riduttivo, in quanto non presenta l’asetticità di certe guide turistiche in circolazione, né mira soltanto a soddisfare curiosità paesane, ma si snoda seguendo una studiata criteriologia e un movimento ermeneutico caldo, ricco di pathos e di trasporto interiore, entro cui si trovano vettori di marcia che raggiungono l’obiettivo mentale dello scrittore.
Belgiorno apre il suo volume con una sintesi storica su Modica incastonata nell’entourage della Contea e dei suoi personaggi più illustri, che vanno dai Mosca ai Chiaramonte, dai Cabrera agli Henriquez; quindi pone il lettore a contatto con il paesaggio naturale modicano, facendone apprezzare la ricca vegetazione e la varietà delle piante. Ciò che colpisce nei primi capitoli dell’opera è la “passione ricercatrice” di Belgiorno, il quale riesce a corredare il suo lavoro di testi di autori stranieri che hanno visitato Modica e la nostra isola, tra cui l’irlandese Colt Hoare, il francese Deodat Dolomieu, il tedesco Gustav Parthey, l’inglese Antony Blunt. Un ampio capitolo l’Autore riserva alle chiese, le cui notizie riprende da un volume del padre, “Modica e le sue chiese”, pubblicato nel 1955. In detto capitolo vengono riportati dati storici sulle principali chiese della città nonché i lineamenti artistici ed architettonici essenziali; il dato più rilevante, comunque, è certamente il percorso che Antonio Belgiorno traccia per orientare i turisti, i quali vengono quasi condotti per mano nella visita interna delle chiese.
Il libro contiene, inoltre, notizie sui monumenti e sui palazzi (Il Castello, il Portale De Leva del XIII sec. il Palazzo Polara, il Palazzo Tomasi-Rosso, etc…) e una splendida illustrazione del Museo ibleo delle arti e tradizioni popolari “S.A. Guastella”, realizzato grazie all’opera certosina oltre che del fratello Duccio, da Grazie Dormiente, Raffaele Galazzo , Giorgio Buscema e Franco Ruta, ed oggi ubicato a Palazzo dei Mercedari in attesa di essere riaperto al pubblico.
Belgiorno, anche in questo caso, indica un itinerario di visita del Museo e, poi, scompone i vari pezzi, accompagnati da un commento, riguardanti la masseria, i suoi vari ambienti, le botteghe.
L’Autore nel passare in rassegna “U bagghiu” (cortile), “a casa ri mannira” (casa per lavorare i prodotti caseari), “a casa ri stari” (casa di abitazione), la “stanza rò travagghiu” (stanza per il lavoro), “a stadda” (la stalla) intreccia storia e memoria e fa approdare sulla pagina, col supporto anche visivo di foto a colori e in bianco e nero, la realtà di un mondo ormai scomparso, ma carico di semplicità, di valori e creatore di cultura popolare. Le botteghe artigiane, ricostruite con cura ammirevole dai responsabili del Museo e descritte dall’Autore con puntualità e precisione, riguardano il calzolaio (“scarparu”), il mielaio (“milaru”), il fabbro ferraio e maniscalco (“firraru e ferrascecchi”), il costruttore di carretti (“mastru ri carretta”), il lattoniere e lo stagnino (“lantirnaru”), l’artigiano della canna (“cannizzaru”), il dolciere (“durcieri”), il sellaio (“siddunaru”), il falegname ebanista (“falignami”), lo scalpellino (“scalpellinu”), il cordaio (“curdaru”). In questo viaggio tra le varie botteghe Belgiorno non manca di situare citazioni storiche che evidenziano il possesso delle sue conoscenze, come nel caso della bottega del fabbro ferraio e maniscalco e di quella del cordaio, e ricostruisce le coordinate di una “civiltà che, sino a qualche decennio fa, come egli stesso scrive, era visibile e vivibile nelle campagne ed era rappresentata soprattutto dai carretti, dagli asini e dai muli” ( pag. 62).
L’ultima parte dell’opera è dedicata ad una ricostruzione – descrizione degli aspetti più rilevanti del parco di Cava d’Ispica, ai quartieri di Modica ove tanta storia locale s’è consumata, e agli odori e sapori. Franco Antonio Belgiorno si sbizzarrisce anche nel ricco mondo gastronomico modicano, ricordando usanze, tradizioni, detti, ricette, dolci, vini; particolarmente interessante risulta il paragrafo “Ballata del pane che fu”, dove emerge, oltre al dinamismo diegetico del racconto, l’estro narratologico di Belgiorno che riesce, mediante un intreccio di immagini, tradizioni ed elementi rusticali, a darci una bellissima pagina di letteratura locale.
La memoria collettiva modicana deve ad Antonio Belgiorno una acuta interpretazione del patrimonio culturale e delle tradizioni di Modica senza dubbio interessante ed originale, in quanto capace di far convergere nell’unità le diverse articolazioni della città barocca con la quale lo scrittore ha intessuto un rapporto personale atipico ed originale.
Belgiorno proprio perché è riuscito a far convergere in un orizzonte unitario storia, cultura, tradizioni, archeologia, monumentalità, topografia, paesaggio e gastronomia, ha lasciato pagine su Modica di solido spessore culturale, pagine che , con un linguaggio chiaro, agile, snello e lineare, esaltano una visione organica, accattivante e fascinosa di quella che un tempo fu la capitale della Contea.
Chiudiamo questo ricordo di Franco Antonio Belgiorno riportando tre stralci di brani di una sua opera narrativa.

Da: “Teatro delle pietre e giardini sul cielo” (2006 -2007)

I carrettieri con l’orgoglio dei “gauchos” argentini

“… I maestri dei carretti erano come i grandi meccanici delle vetture di oggi, venivano considerati con grande rispetto, onorati e quasi adorati. Duccio, mio fratello morto, aveva organizzato nel Museo delle Tradizioni, restaurato o meno non importa, alcune zone dove si trovavano due bellissimi carrelli, una collezione di casce e di porteddi su cui i pittori di carretti dipingevano scene molto semplici. Alcune rappresentavano San Giorgio che uccide il drago, altre l’arrivo di Garibaldi a Calatafimi, con i suoi ragazzi dalle sgargianti camicie rosse.
Non era raro, che anche scene della Divina Commedia venissero rappresentate con pomposità e affetto verso il sommo Poeta. I carrettieri erano, in fondo, l’anima segreta di una città fatta di scalinate, impervia e quasi ostile. Si muovevano sul Corso e arrivavano fino a Modica alta, venendo dai quattro venti della grande campagna modicana. Sereni e con le loro canzoni che ricordavano le melodie magrebine, si imbarcavano sotto il sole o durante le famose piogge modicane, riparandosi sotto grandi ombrelli neri che parevano paracadute arrivati da un cielo dove le nuvole stesse avevano forme di cavalli…”

L’aroma dell’Orientale

“…Nell’estate del 1948 Luigi Zampa, Massimo Girotti e la giovane Delia Scala si sedettero al Caffè Orientale, circondati da curiosi, e sorbirono una granita di mandorla. C’è chi li ricorda perfettamente, e ne parla ancora oggi, come di un avvenimento eccezionale. L’estate era calda, e felice, perché da pochi anni era finita la guerra. Il regista e gli attori stavano girando Anni difficili che era la storia di Piscitello scritta da Vitaliano Brancati. La novella descriveva le disavventure di un uomo che era stato costretto a iscriversi al partito fascista durante il ventennio e che poi, all’entrata degli Americani, aveva buttato via la sua tessera. Brancati mostrava così il camaleontismo politico nazionale che anche a Modica aveva trovato molti adepti, coloro che, a dirla con Flaiano, erano corsi subito in aiuto sui carri dei vincitori.
Il Caffè Orientale, in quel periodo, era come una laguna di noia, dove annegavano molti sogni di giovani dai bollenti spiriti, e dove si ritrovavano i modicani che contavano. Fra di essi, cavalieri perdigiorno, nobili squattrinati in cerca di doti, ma anche intellettuali con la paglietta in testa, sorta di futuristi che continuavano ad insistere nelle loro idee rivoluzionarie. Camaleonti su camaleonti, bisogna dirlo, che del loro antifascismo non davano molta convinzione, e che tuttavia si preparavano alla nuova Italia. Cambiava ogni cosa, ma non il Caffè Orientale che aveva la sua terrazza proprio sotto il Palazzo Grimaldi, di fronte al palazzo del Tribunale…”

Matrimoni

“… La meraviglia dello “sposalizio” modicano, così come viene descritta da un viaggiatore inglese verso il 1950, figlio dello scrittore Arcibald Cronin (E le stelle stanno a guardare), consisteva ancora nella maniera dei matrimoni come avveniva da secoli. Cronin, trovandosi sulle scalinate di San Pietro, osservava come una sposa un po’ timida e uno sposo molto fiero, si preparassero
alla sfilata sul Corso con i parenti dietro, a piedi va inteso. All’uscita di chiesa, manciate di grano avevano salutato la nuova coppia. Sicuramente questa scena, che vidi centinaia di volte, si è perduta per sempre, né si potrebbe sfilare sul Corso nelle sue attuali condizioni.
Dopo la colonizzazione della televisione italiana, contro cui le noiose private hanno ben poco da offrire, il matrimonio globale ha invaso tutta l’Italia…”

I tre brani sopra riportati sono tratti, come dicevamo, dall’ultima opera di Franco Antonio Belgiorno “Teatro delle pietre e giardini sul cielo”. Si tratta di un’opera scritta tra il 2006 e il 2007, nella quale Belgiorno descrive il vero teatro delle pietre, la rappresentazione sempre avvertita e ricca di pathos interiore, di una città con la quale vive un rapporto dialettico, critico e passionale, sentimentale ed emotivo. Il suo punto di osservazione nel tratteggiare i lineamenti e i ricordi di Modica è il quartiere Cartellone, ove si trova la sua abitazione. Da qui egli ha costruito tasselli memoriali che disegnano mutamenti qualitativi e quantitativi di una città in cammino con il rischio di perdere la sua migliore identità.

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1 commento su “Personaggi degli Iblei di ieri… di Domenico Pisana”

  1. Caro Domenico ti ringrazio per questo bellissimo articolo sul compianto Ciccio Belgiorno con cui mi legava una sincera amicizia.ad majora

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