
Il 13 dicembre di 100 anni fa nasceva il modicano Renato Civello, il poeta, il Preside, il critico d’arte, un personaggio di rilevante spessore intellettuale e dagli impegni variegati nel mondo della cultura. Poeta e critico d’arte di riconosciuta autorevolezza, ha vissuto tra Modica e Roma; nella capitale è stato preside negli Istituti di istruzione media superiore ed ha partecipato attivamente alla vita culturale italiana, collaborando a quotidiani e riviste e intervenendo a dibattiti.
Fra i molti riconoscimenti sono da ricordare il Premio Nazionale della Critica d’Arte conferitogli nel 1956 dall’Ente Quadriennale e dall’Ente Provinciale per il Turismo di Roma, i Premi “Ortigia” e “Renato Serena” per la poesia, il “Sulmona” per la critica. Civello si è occupato anche di saggistica letteraria ed ha pubblicato studi monografici su alcuni dei maggiori artisti italiani e stranieri. L’ultima sua opera dal titolo “Artisti del Novecento a Roma” (2004) è stata proprio un omaggio all’arte; in essa trova spazio , come in un grande mosaico, una selezione di sue recensioni: 197 gli artisti presentati, tra i quali figurano Greco, Guttuso, De Chirico, Bartoli, Fazzini, Purificato, Mazzullo, Omiccioli, Gentilini, Sciltian, Assenza, Monachesi.
Si tratta di testi di critica d’arte arricchiti di aneddoti, di ricordi personali, e che diventano un vero e proprio momento dialogico con l’artista e con il mondo che lo circonda. Civello nel suo volume non manca di provocare qualche polemica con le Istituzioni per il modo in cui si rapportano con l’arte e la cultura e offre una mappa artistica della capitale dagli anni dei ragazzi di piazza del Popolo e della Scuola romana ai giorni nostri.
Civello ha al suo attivo parecchie opere, fra le quali segnaliamo Autenticità di Omiccioli, 1969; Dorigatti, 1969; Ironia e umanità di Bartoli, 1970; Le città americane di Orfeo Tamburi, 1971; Naturalismo di Gennaro Cuocolo, 1971; Nature morte e fiori di Albertin, 1972.
Fra le sue opere di poesia ricordiamo Chiarobuio, 1949; Quest’arco pallido del tempo, 1972; Sui giochi di ventura, 1984. Sul fiume di Archita, 1988, Teorema di mezzanotte, 1996. Civello è presente nell’antologia Poeti italiani del secondo dopoguerra, curata da Mario Apollonio. Nel giorno della sua scomparsa, avvenuta nella sua casa di Modica, chi scrive ebbe modo di ricordarne le memoria con una delle sue diverse lettere a me inviate:
Caro Pisana,
Le sono sinceramente grato della penetrante indagine che ha avuto la bontà di dedicare alla mia poesia su “La pagina” (mi accorgo che il foglio della coraggiosa – ma civilissima – Luisa riesce ad avere, nonostante le sue proporzioni, una inattesa incidenza qualitativa, allineandomi al giornalismo, sempre più raro, non mortificato da alcuna pesante ipoteca).
Nel Suo saggio ho individuato, col più calibrato senso critico, ma anche con molto calore umano, i “motivi” del mio linguaggio; e soprattutto – gliene devo dare atto – con quella perspicuità e precisione di struttura che oggi sono ormai fuori corso. L’essere andati, contro corrente, ed una misura formale è ragione di vanto; e lo è ancor più credere, a dispetto delle violenze che esercita, intorno a noi, l’umanizzazione nella incorrotta energia dello spirito.
Mi spiace non essere in grado, allo stato, di inviarle copia della mia nuova raccolta “Sul fiume di Archita”: è stato presentato a Roma e le non molte copie disponibili si sono esaurite. L’editore non ha mantenuto, fino ad oggi, la promessa di mandare il libro a qualche libraio di Modica e un congruo numero di copie da destinare, in omaggio, per eventuali recensioni, ecc. Mi risulta però, che è il comune denominatore, questa tiepidezza diffusiva, per le edizioni di poesia offerta dall’editore. I conti tornano lo stesso, evidentemente, attraverso altri canali, come ad esempio, la Regione.
Quest’ultimo libro, dal titolo che è già di per sé rivelatore, è stato trovato, da chi se ne intende, amarissimo. Mi è piaciuto a livelli indiscussi (Mauro, Ferruccio, Mario Lunetta, ecc.). Non me ne importa, sinceramente, del plauso esterno. Ma è sempre un segno che il mio ostinato umanesimo, come supporto all’ancor più intima intera vita, può anche essere giustiziato.
I migliori auguri per il Suo lavoro, con l’affettuosa amicizia di
Renato Civello
Roma,1 maggio 1989
Oltre alla intensa attività di critico d’arte, Renato Civello va apprezzato per la sua notevole attività poetica, che è quella su cui vogliamo soffermarci perché veramente avvolta in un’atmosfera di intimità quasi sacrale, vivificata da impulsi lirici e da un procedere immaginativo infittito di dinamiche allusive.
L’Autore sente intensamente, vive dall’interno il suo approdo lirico; il suo poetare non è, infatti, un accademico esercizio letterario, né la ostentazione dell’intellettuale che gioca con gli strumenti essenziali di tecnica poetica. Nella poesia di Civello c’è vita e passione, tormento e sofferenza, analisi e valutazione degli accadimenti; c’è l’impasto di aulico e di quotidiano, la sintesi tra estasi contemplativa e vissuto esperienziale. E tutto questo nella fedeltà alla tradizione del mondo classico. Il poeta non si incanala sui binari dell’avanguardismo, ma fa propria la lezione simbolista, della quale sono permeati i sui versi delle sillogi Chiarobuio del 1949, Quest’arco pallido del tempo del 1972, e Sui giochi di ventura del 1984.
L’opera di Civello è il risultato della convergenza di tre fattori fondamentali:1) l’attivazione delle sue disposizioni personali, segnate in parte da toni drammatici e angosciati; 2) la rielaborazione trasfigurativa delle sue motivazioni intime, che si sostanzia in confessioni liriche; 3) lo stimolo e la sensibilità culturale, che l’autore ha sentito e sente sempre vivi nella costante e progressiva maturazione della sua personalità.
In questo contesto trova corpo un eloquio attraversato da rapide folgorazioni d’immagini, e si concretizzano altresì le soluzioni espressive e i moti più segreti del cuore del poeta; emerge, inoltre, il tratteggiamento di unità tematiche che, a volte, ritornano con insistenza, quasi a voler evidenziare il suo bisogno di riflettere sui moventi dell’inquietudine che la vita riserva all’uomo d’oggi.
Lo spazio e il tempo sono state due categorie essenziali del poetare di Civello “… potremo sciogliere il nodo / del tempo senza tempo / e di una identità senza più spazio.” Sono versi, questi, con cui si chiude la lirica Sui giochi di ventura, e che attestano come le categorie spazio-tempo giuochino un ruolo importante nella sua poesia; al loro interno si muove il tormento lirico dell’autore e si colgono le sue confessioni interiori.
La vita per Civello non è indifferenza né passività, ma “spazio relazionale”, ossia insieme dei rapporti con uomini e cose che direttamente lo circondano; è un circuito in cui interagiscono azioni e reazioni, attività e recettività, e nel quale egli si sente profondamente immerso; è una rete in cui egli avverte il consumarsi della sua esistenza, la fragilità della vita, la malinconia e l’amarezza, la solitudine e il pianto:
“Tristezza di fermarsi /a un crocicchio /e fare bivacco /di languori/ con la sorella/ malinconia…” (Bivacco);
“… il senso incorrotto/ del mio triste avanzare/ tra un baleno di luce/ ed anni d’ombra. / Fermare un solo sussulto/ fedele/ al mio morire.” (Desiderio di poesia);
“… franano i miei giorni /e una stanca amarezza m’assale…” (Franano i miei giorni);
“… Non c’è voce che distrugga/ la mia solitudine: /ardendo /abbracciare il mio nulla e piangere ancora il mio pianto.” (Angoscia seconda)
Al tempo, poi, Civello dà una connotazione ben chiara; non è un fluire indeterminato di giorni e di ore affidato al caso, ma il luogo della comprensione e realizzazione del senso, cioè il luogo, da una parte, delle paure e delle ombre, dei silenzi, della morte, dell’ansia, e, dall’altra, il luogo della luce, delle gioie, del sole, dei rifugi, delle dolcezze e delle armonie; il luogo che postula domande, che spinge alla ricerca, che abbatte e apre ferite, che entusiasma e disillude, e in cui il poeta si scopre ora come “il viandante stanco / che il vento dell’angoscia ha fermato…”, ora come “la pazza farfalla / che s’ inebria di luce / per morire”.
Nella lirica “Quest’arco pallido del tempo”, che titola la seconda silloge di Civello, si coglie, sotto certi aspetti, una tematica spleenetica; il poeta canta con toni malinconici la fugacità del tempo e si strugge per la consapevolezza di dover dire “addio” alla giovinezza; si macera tra sensazioni d’angoscia e atteggiamenti di rimpianto.
Il lessico presenta anche termini decadenti (“languore”, “ombre”) e si sviluppa in dimensioni entro cui lo stato d’animo del poeta dà luogo ad un dialogo-confessione che avvolge il lettore sin dal primo verso. Ed è uno struggimento che ritorna e si fa messaggio, meditazione, veicolo di comunicazione: “… Domani, domani il mio nome sarà /come una nebbia, / e poi anche il loro impallidirà /- così vivo e imperioso all’anima mia – /nell’arco dell’amore / consunto dagli anni…” (Le estati muoiono)
Una emanazione di interiorità tesa a fare chiarezza e un suggestivo incrocio di sentimenti, di affetti amicali e familiari, di religiosità e di dialogo con la natura, di indagine e di meditazione sui contenuti della vita, si presenta la IV silloge poetica di Renato Civello, Sul fiume di Archita. (1988)
La raccolta contiene una magistrale presentazione di Walter Mauro, il quale, da par suo, ci dà gli intagli e le angolature prospettiche del sofferto e complesso mondo esistenziale del poeta, fatto di certezze e di smarrimenti, di cadute e di tensione verso l’ideale. Civello affida le sue soluzioni poetiche al bisogno di una “veritas liberatoria”, e ad esso raccorda tutti i movimenti e le articolazioni del suo messaggio poetico, nonché la costruzione delle immagini e il loro significato. I suoi versi sono come l’acqua pura e cristallina, esalano il profumo dei fiori e si vestono del colore dei paesaggi; toccano il cuore come il suono dell’arpa e scandagliano i fondali ove si trovano ferite aperte dagli inganni del tempo.
L’atmosfera globale della silloge sembra rimanere, come già in altre raccolte, cupa e di sapore amaro; ciò, probabilmente, perché il poeta dispone di un’acuta sensibilità, è costantemente legato ai suoi stati d’animo e sente profondamente le sue vicissitudini interiori, per cui il suo io poetante, quando la Musa gli dona l’ispirazione, si oggettiva in una meditazione che nulla ha di artificioso, ma che si libra coagulando al suo interno il dramma del vivere, le incertezze del domani, la paura dell’oblio (“Qualcuno mi raccoglierà / dietro il muro di tenebra… / Che non sia la mano nera del silenzio, / 1’incolmabile nulla…”), gli scoramenti e le aggressioni (“Ho troppo pagato / il disprezzo di frodati privilegi, di trafficate fortune. / … Troppo mi hanno dilapidato le agapi plebee: / non ho più olio / per la lampa della vestale…”); il tutto trasborda dalla sfera personale ad una prospettiva di universalità in cui il dramma dell’Autore diventa, in fondo, quello di ogni creatura umana che vive sotto il cielo.
A questa atmosfera di penombra corrisponde il codice linguistico utilizzato dal poeta, nonché il quadro delle analogie e il valore semantico dei termini con i quali risultano organizzate le immagini.
Il leitmotiv della struttura portante dell’opera poetica Sul fiume di Archita ha le sue radici in un processo ermeneutico che investiga sulla realtà del vivere nelle sue antinomie, contraddizioni e polivalenze, e che si sviluppa come dialettica tra tempo ed eternità, finito e infinito, sensi ed immaginazione, nel quadro di un paesaggio ricco di effetti cromatici e di notazioni impressionistiche. Si tratta di un paesaggio in cui si trovano disegnati flussi di coscienza che privilegiano una relazionalità di tipo francescana con i doni della natura e che annida in sé la malinconia e la consapevolezza della caduta dei valori tradizionali, ai quali si è imposta l’illusorietà di certe ideologie contemporanee.
Civello è stato un poeta vero. Quel che ha affascinato dei suoi versi è stata la sua capacità di penetrazione nell’intima essenza delle cose, senza vuote declamazioni e artifici retorici; quel che ha colpito è stato, soprattutto, quel continuum ontologico e psicologico che lo ha proiettato nella ricerca di mete sempre più chiare (“Ma non mi placa / la cartesiana certezza / d’esistere, / se non so dove vado…”), pur con la consapevolezza che “quel che sarà domani / sta scritto nelle foglie” . E le foglie che Modica raccoglie sono oggi i libri della nutrita collezione che egli ha donato alla città.
Chiudiamo questo omaggio a Renato Civello con alcune poesie tratte da alcune sue sillogi:
Da: Quest’arco pallido di vento (1972)
Non uccidere il tempo
Non uccidere il tempo:
fermalo
con la carezza più lunga,
con la memoria più dura
del granito.
Se si spegne il canto delle rondini
sul tralcio ancora verde,
se la nuvola d’ottobre
rabbrividisce sulla terra nera,
fioriscimi il cielo
coi tuoi baci.
Si può tremare un giorno,
quando ogni cosa
ha un suo tenero cuore,
senza morire;
e l’attesa di sempre,
se la raccogli col più lieve incanto,
è il paradiso mio.
Non uccidere il tempo,
l’angoscia lenta degli anni
tu vestila d’amore.
Dono
Esplosa è improvvisa
la fiamma d’aprile
sui marezzati
campi:
porterò
una bambina cieca a cogliere
margheritine
bianche e gialle
su le prode.
Da: Teorema di Mezzanotte(1969)
Perché si fa sera
Non posso, ora che avanza
il corteo dei fantasmi,
avventurarmi sulla strada buia:
mi accompagni l’si fa sera.
Nella bisaccia consunta
non ho più pane,
ma la mia fame
è di parole che turbano:
non voglio essere preda
di tante voci di cenere,
l’unica che disperde
gli spettri della notte,
mi parli la Voce, mi parli
perché si fa sera.
Pur nella gloria di maggio
ho sotto i piedi un tappeto
di foglie smorte;
e se più non m’illudono gemme
di mattini e fruttificazioni
e s’appanna di nebbia
l’ultima luce
e scolorano i clivi,
conforta l’anima mia,
Ospite sconosciuto,
perché si fa sera.
Io sono smarrito, ho paura,
perché si fa sera.
Questa lirica è tratta dalla raccolta Teorema di Mezzanotte (1996), opera in cui Civello entra nella fase più matura e articolata della sua esperienza poetica. Si coglie in essa una riflessione che poggia su una attenta fenomenologia del suo “essere nel tempo”, dove la vita ha raccolto i suoi frutti e dove si fa più forte l’interrogativo sul fine ultimo dell’esistenza. Il poeta avverte una sorta di fibrillazione interiore legata al perché della fine della vita. Nella lirica c’è una meditazione che ha il sapore del dolore, un sommesso orizzonte di sofferenze. “Ho sotto i piedi, afferma il poeta, un tappeto di foglie smorte; egli vede che “s’appanna di nebbia l’ultima luce e scolorano i clivi”.
La poesia è una sorta di abbandono all’Attesa, un circuito di meditazioni interiori dove ciò che prevale è spesso la paura, quella paura della sera, che non è più uno scenario di paesaggio da contemplare, ma il bisogno di uscire dall’incertezza e di capire il destino che lo attende per porre fine al suo smarrimento.