Perché l’uomo sente la necessità di ricordare e raccontare il passato? Come si spiega questo bisogno di ritornare indietro nel tempo affidandosi alla memoria per rievocare episodi, fatti, accadimenti, esperienze, aneddoti, ricordi?
La risposta a queste domande trova un orizzonte nel bisogno dell’uomo di “connettersi con le proprie radici”; oggi siamo, grazie ai social, tutti connessi, ma quel che sta accadendo è che spesso viviamo sconnessi: con noi stessi, con gli altri, con le nostre radici, con le nostre storie di provenienza. E allora ci viene in soccorso la memoria che, con i suoi filmati, ci riconnette. E questo è quel che accade a Salvatore Paolino con il suo libro “Ricordi di sQuola”. Racconti 1940-1986, Edizioni Associazione culturale Dialogo, 2024, nel quale la memoria svolge un ruolo storico, diventa testimonianza autobiografica di un tempo maestro di vita, vissuto con intensità, così da poter dire, prendendo a prestito Oscar Wilde che “Il nostro unico dovere nei confronti della storia è di riscriverla”, e la memoria, in questo senso, è uno strumento privilegiato.
“Il ricordo – direbbe Sören Kierkegaard – è un consolatore molesto… è un’ombra che non si può vendere, anche nel caso in cui qualcuno volesse comprarla! , e Cesare Pavese aggiungerebbe “A che serve passare dei giorni se non si ricordano?”
Gli aforismi di questi due scrittori della grande Letteratura rimbalzano in tutta la loro essenza in questa raccolta di racconti di Salvatore Paolino, socio fondatore del Caffè Letterario Quasimodo di Modica, un autore di lungo corso il cui itinerario esistenziale si è dispiegato, in 68 anni, nella pubblicazione di quindici raccolte poetiche, tra le quali segnaliamo Canti di Monserrato, Lacrime e fiabe, Nei coni d’ombra, Prima che il giorno muoia, Era il tempo degli aquiloni, L’altro eri Tu, e due in dialetto, Chìddi sì ca èrunu tièmpi! Nto paìsi re rivuòrdi; adesso l’autore si cimenta anche nella narrativa con questi racconti scritti durante il periodo pandemico del Covid.
Ciò che, a prima impatto, connota questo libro sono i due lemmi “ricordo” e “squola”, dove il lemma “squola” è scritto di proposito in modo errato per evidenziare – chiarisce l’autore – come fosse un errore che abitualmente si faceva quando egli frequentava la scuola, unitamente ad altri termini tipo “còndatino” e “faccioletto” e “squola alimentare” per l’appunto.
Si tratta di un libro dal quale si sprigionano schegge di un passato che si dipana come una sorta di “diario minimo” del tempo che fu, di un’infanzia con le sue luci e le sue ombre e mediante una narrazione che compone tanti tasselli che vanno a formare quasi un mosaico, sintesi del pensiero e della coscienza dell’autore.
Nella prima parte del volume confluiscono episodi di vita che abbracciano il periodo che va da 1940 al 1950. Salvatore Paolino racconta storie di vita, come quella che lo vede relazionarsi con Giovanna, amica di sua madre che viveva da sola e che frequentava la sua casa di via Campailla, e con un figlio in Etiopia, a Addis Abeba, che non vedeva da moltissimi anni; o come quella relativa al rapporto con un soldato canadese ventenne che alla fine di giugno del ‘43, appena avvenuto lo sbarco degli alleati in Sicilia, si presenta in casa dicendo: “ ‘Please, iu amìcu rê taliàni’ E, sventolando una lettera senza francobollo, assieme a un dollaro, gesticolando, ci fece capire se potevamo fargli il favore di affrancarla e spedirla alla sua famiglia, in Canada… Mio padre, per tutta la scena, – racconta Paolino – aveva annuito senza capire niente; quando poi rimanemmo soli, si sentì male e svenne”.
L’autore mette insieme cocci di alcuni momenti del primo giorno di scuola, come la “bacchetta magica” della maestra “che teneva al suo fianco, in bella vista e che somigliava ad una canna da pesca, ma sicuramente più lunga e più robusta”; come le bizze del compagno di banco dell’ autore, che “si rivelò subito irrequieto, sordo a qualsiasi richiamo, indifferente alla minaccia ripetuta della maestra: se avesse continuato a distrarsi e a distrarre i compagni, avrebbe assaggiato proprio quella bacchetta magica , bacchetta che, invece, – racconta Paolino – per un errore della maestra che doveva punire l’irrequietezza del compagno andò a colpire la sua testa facendogli provare vergogna e mettendolo in ridicolo di fronte alla classe al punto da dire a se stesso “ Io, a scuola, non ci andrò mai più ! Invece, ci andai tutti i giorni a seguire, fino all’età di 65 anni, quando andai in pensione”.
Nella seconda parte del volume, la memoria di Salvatore Paolino appare al lettore come una tavolozza su cui egli imprime i suoi ricordi come delle impronte, e su cui trova spazio il racconto di fatti che intrecciano identità ed esperienze vissute, rivisitate e riprodotte dall’autore con un linguaggio quasi catartico, cioè capace di provocare in lui un senso di riflessione cambiando il suo modo di porsi di fronte alla vita.
Ed è così, allora, che la narrazione serve all’autore per portare il passato nel presente e fargli rivivere due volte la vita, assaporandone, inconsciamente, momenti belli e piacevoli ma anche di malinconia.
Nella terza parte del volume, che abbraccia un periodo compreso tra il 1954 e 1971, Salvatore Paolino
racconta, fra l’altro, quella volta che, docente, il Preside gli assegna due ore di supplenza in una prima classe dell’istituto superiore dove insegnava nel triennio e il disagio che provava perché temeva di non sapere come rapportarsi con ragazzi giovanissimi, provenienti dalla scuola media, e ai quali assegna un tema su un “evento importante al quale avessero partecipato”. Uno degli allievi, Peppiniello, gli parla del matrimonio di sua sorella Angelina, consegnando un testo con numerosi errori del tipo “abbrazzò, fotocrafo, suogera, Gioggino abbraccetto , apprauso, si arrizzò, carrabbinera, lamico, inzieme, stazzione, allorecchio”.
Come si ben può notare, i racconti di Salvatore Paolino sono una rivisitazione della sua esperienza di adolescente, di giovane, di adulto, di docente, di Preside, racconti che offrono uno spaccato antropologico di ciò che nella sua esperienza ha rappresentato la crescita, la famiglia, il lavoro, la fede, l’amicizia la socialità, l’affettività, la semplicità delle relazioni; il suo libro, così, rappresenta una testimonianza narrativa che si offre come “discorso storico-antropologico” di custodia della cultura della memoria e anche di geografia della memoria .
Nell’ultima parte del libro, infine, l’autore porta sulla pagina fatti accaduti tra il 1978 e il 1986, nei quali si coglie l’emozione di alcuni filmati memoriali, come quelli del racconto “Un lunedì di luglio del 1984” quando apprende la notizia della gravidanza della moglie; come i filmati del racconto “La ragazza dell’Aids” in cui narra l’episodio di una notifica, ricevuta nella qualità di Preside, secondo la quale una studentessa, “Angela R. della 2^B”, aveva l’Aids., virus contratto durante le vacanze che aveva trascorso a Milano; ed ancora, come i filmati che ricordano la figura di Diego Toninelli, che una sera di fine gennaio si presenta nel suo ufficio di presidenza chiedendogli di poter fare delle fotocopie di alcune sue poesie.
Con questo libro di racconti, per concludere, Salvatore Paolino sembra ricordare al lettore che “noi siamo le nostre radici”: tutte le radici con luoghi reali o immaginari che abbiamo vissuto, accettato, scartato, combinato, rimosso, inventato; noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con le nostre radici.
Tutte le storie narrate approdano sulla pagina con il linguaggio della conversazione amichevole e familiare, che si muove dentro un universo sapienziale che appartiene alla quotidianità dell’esistenza; con un linguaggio attraversato da spinte motivazionali e atmosfere ispirate alla condizione culturale e ambientale dei fatti narrati e dei personaggi coinvolti.
E così, la narrazione l’ analisi e il metalinguaggio del volume sono diventati il binario del cammino di una coscienza critica, quella di uno scrittore, capace, da una parte, di leggere la realtà e, dall’altra, di farla uscire dalla tentazione della manipolazione. Davvero si respira nei racconti proposti da Paolino un “sapore di umanità”, quello disincantato, genuino, che vive di fatiche e di passioni, di “cose semplici”, che si affida alla concretezza e al realismo della relazione umana, e che sa radicarsi in una data terra, in un dato luogo, in un preciso contesto storico come quello della città di Modica.
- 8 Febbraio 2025 -