Lo sguardo attento di un cuore che ama la vita e che coglie i riverberi dello smarrimento del nostro tempo, si presenta al lettore la raccolta poetica di Daniela Quieti, dal titolo Forse l’eternità, Ibiskos Ulivieri editrice, 2024. Si tratta di un testo che si snoda con una verificazione imbevuta di emozioni e stati d’animo che disegnano il tracciato di un percorso di meditazione sulla significabilità degli accadimenti umani.
L’autrice , che vive a Pescara, ha al suo attivo numerosi pubblicazioni poetiche (I colori del parco, 2007; Cerco un pensiero, 2008; Uno squarcio di sogno, 2010; L’ultima fuga, 2011), oltre a pubblicazioni di saggi e racconti; è anche curatrice di rubriche rispettivamente di letteratura straniera per la rivista “Il Porticciolo” ed “Echi di riti e miti” per la testata “L’eterno Ulisse”, nonché componente della redazione del quadrimestrale di poesia e letteratura “I fiori del male”.
La poesia di apertura della raccolta, Quando il mondo intorno, offre già il il sitz in lebem, cioè il contesto situazionale dentro il quale si colloca il volume, un contesto di cambiamenti, di contraddizioni e accadimenti a livello globale, e caratterizzato – scrive la poetessa nella sua introduzione – “da eventi distruttivi e disorientanti come le guerre, le pandemie, le migrazioni, l’intelligenza artificiale e i cambiamenti climatici” , tali “da frantumare le sicurezze che si credevano raggiunte”. e ponendo “nuovi dilemmi sulla ricerca di senso dell’esistere, chiamando a proiettarsi da una storia individuale in quella collettiva”. Così, infatti, si esprime la poetessa nei suoi versi:
“Quando il mondo intorno
diventa sconvolgente
e ancora una volta chiede
di essere eroi
quando fuggono i giorni
tra il bene e il male
e tutto accade in fretta
in salita
è difficile credere nel domani…”
La parabola poetica di Daniela Quieti è sicuramente infittita di contenuti lirici e di stilemi tematici che le permettono di raggiungere un orizzonte nel quale la “geografia interiore” della sua anima si confronta fortemente con la drammatica essenza dell’esistere, aprendosi ad una dimensione divina e ad una visione di fede; così, pertanto, la sua voce si fa invito a guardare all’amore, alla libertà e alla pace universale: “Camminiamo liberi, Amico / il nostro Padre non conosce l’odio folle / o l’inganno di guerre e relitti di sangue / versato in abissi di Caino /senza ideologie è l’esercito del Signore. // Sotto lo stesso cielo su questa strada / a pietà ci sorregge e misura i nostri passi”, in Figli di un solo Dio.
C’è nell’itinerario della poetessa un originale approccio teonomico ai fenomeni esperienziali di cui la vita umana è segnata; la sua versificazione trasuda di un turbamento cosmico dove persone, cose, oggetti, paesaggi dell’anima appaiono permeati di quel giustiniano “Logos spermaticòs” che appare progressivamente dispiegato nelle poesie per illuminare e dare senso al suo viaggio sentimentale e intellettuale. E il titolo del libro, Forse l’eternità, è del resto la dichiarazione di un episteme che stabilisce un “felice punto di incontro” tra poesia, teologia e filosofia, dandoci le coordinate di una visione poetica dove la parola si fa linguaggio e raffigurazione a-temporale dei processi esistenziali più sofferti e fortemente incisi nell’anima.
Daniela Quieti abbellisce il suo canto di un fascino dolce e delicato, intrecciando immagini di bellezza e schiudendo orizzonti di una trascendenza fatta di raffinatezza e di grazia:
Le parole trascenderanno la realtà
e come tracce della nostra essenza
resteranno nel flusso dell’universo
a raccontare giorni e destini
tra pieghe cosmiche dello spazio-tempo
oltre gli incubi di paure e pericoli
concedendoci forse un rito di passaggio
verso altri regni sconosciuti
dove scoprire frammenti d’infinito.
(Frammenti d’infinito)
Il sogno della poetessa si consolida in una supplica finalizzata a non “dimenticare le vite rubate / le speranze tradite estinte / sui treni oscuri del sacrificio / per riaccendere la memoria /sul tributo crudele della storia / tra le macerie dei morti che videro / l’estremo raggio di luce spegnersi // agonia disumana santificata / dalla sua eterna ricerca di pace”.
Gli stessi lemmi che successivamente Daniela Quieti utilizza: “amore”, “sacrificio”, “ricordi”, “speranza”, “pace”, “raggi di sole”, “orrori”, ricreano quella “visione” biblica racchiusa sempre all’interno di dialoghi che connotano l’ appello all’esperienza di un rapporto io-Tu:
“…Mostrami, o Signore
da che parte andare
senza te vacillo, cado
solo la tua voce mi guida
attraverso ciò che non conosco
prendi la mia mano
illumina la mia strada
insegnami a vivere per te”.
(Mostrami, o Signore)
Tu sei respiro libero
intriso di cosmo
alga blu.
La mia vita si muove
in un acquario
con incerto destino.
(Tu sei respiro)
L’anima della poetessa s’eleva nei versi con dolore e tormento, attraversata da “Pensieri lieti e tristi / ascese e cadute / che vanno e vengono / come foglie d’autunno / tra sogni infranti / e storie d’amore”, anelando al ricongiungimento tra creatura e Creatore e trasfigurando con immagini la rappresentazione del bisogno di rimettere le “orme umane” nell’ “impronta” dell’Assoluto; la voce inquieta della sua coscienza civile opera una sorta di discernimento critico e di separazione tra il bene e il male, denunciando “orrori” di cui l’umanità vede ancora le impronte disegnate nel percorso della storia, impronte che hanno trasformato in tenebra lo stato edenico cui il Logos aveva destinato l’uomo: “Gli orrori turbinano / nascono incubi / storie agghiaccianti / d’inquietudine / trafiggono il creato / implacabili agonie / che in muti sudari / piegano speranze / e annientano sogni…”, in Gli orrori turbinano. Si tratti di orrori che hanno generato smarrimento, totalitarismi, “una carneficina di ideologie”: la poetessa si domanda se l’umanità “ riuscirà ancora a condurre / i passi incerti / verso una nuova strada”.
Dentro una temporalità di stampo agostiniano, Daniela Quieti eleva al cielo un “canto solistico” modulato da simmetrie liriche che stigmatizzano la decadenza e la desolazione di un mondo che respira una vita “indecifrabile”, piena di ombre, oscura, destinata a nascondersi dietro un “gran garbuglio” cui neanche l’intelletto riesce a trovare spiragli di luce e orizzonti di speranza.
La poetessa, tuttavia, non sembra arrendersi, e nella poesia collocata alla fine, che dà il titolo alla raccolta Forse l’eterno, evoca proprio il senso di una contrapposizione tra lotta e speranza. L’immagine di “notti inquiete” e “giorni senza sole” suggerisce la trasfigurazione di un periodo di difficoltà e tristezza. Le “ombre profonde” che “partoriscono / spettri invisibili / e paure contorte” rappresentano la descrizione della presenza di ansie e timori nel cuore dell’autrice. Il cuore che urla “al ritmo di tamburi / di guerra / sotto nuvole infuocate” sembra evocare paura e sofferenza interiore con l’utilizzo di parole dense di significati e simbolismi che convergono in un un sinfonico intreccio di umano e divino, portando all’esistenza versi in cui la fede si fa poesia e la poesia diventa fede, in un unico e straordinario linguaggio.
Quell’immagine del “ponte / che sovrasta acque / intrise di sangue” e la speranza che “forse l’eternità / si estende ancora / per noi // tra cielo e terra / nella natura intorno”, suggeriscono un messaggio di speranza e resilienza. La poesia sembra parlare della lotta tra la paura e la speranza, tra la sofferenza e la ricerca di un significato più profondo nella vita. La poetessa sembra suggerire che, anche nei momenti più bui, la bellezza della natura e la possibilità di un futuro migliore possono offrire conforto e speranza.
Il senso di questa raccolta poetica sta tutto nella dispiegazione di una mistica solitudine ove Daniela Quieti dialoga con un Altro-da-sé; le sue parole sono linguaggio in contesti di vita, risuonano di un cuore che parla all’Indicibile, si agitano nel magma dell’anima trasformandosi in balsamo ed olio che unge le molte ferite della vita allontanando la tentazione dell’abbandono alla “fascinatio nugacitatis” e del cedimento alle sirene ingannatrici e futili che caratterizza questo nostro tempo.
Una donna, una poetessa, una cercatrice d’infinito, dunque, Daniela Quieti ; una cercatrice di “amore universale” che trova consolazione nella propria terra, nel proprio mare, nelle testimonianze di santi; che posa lo sguardo sull’umiltà di un contadino che si mette in cammino sotto una notte stellata: “ mucche da mungere, / il tuo cane abbaia / prendi il trattore / attende lì nell’aia // Comincia un altro giorno di sudore”, in Zappando la tua terra.
Un’autrice che si muove tra vie luminose e oscure, dolorose ma anche aperte alle stelle cadenti della speranza, e attraversate dal silenzio interiore, dal sogno e dal suo bisogno di percepire la poesia come “ una pittura che si sente / e non si vede…”, che “prende dimora nell’ombra / barlume che riverbera salvezza. Tremore d’ali in volo nel vento / sfida Icaro nei paesaggi della mente / e spande luce l’insondabile sorriso / simbolismo incorporeo / principio germinale di sapienza”.
Il bisogno di pace, in ultimo, resta sempre l’oggetto della speranza della sua poetica in divenire, e le immagini che in essa risplendono, – specie nella poesia Il volto della pace dove l’uso di colori e contrasti (luce/ombra, bianco/nero, blu/rosa) crea effetti immaginifici potenti che suscitano emozioni profonde – , offrono al lettore contenuti che non sono virtuosismo linguistico, ma una purificazione della parola da residui di ovvietà ed una rarefazione di versi fortemente allusivi e densi di simboli e archetipi che coinvolgono per lo spessore dei sentimenti evocati.
La poesia di Daniela Quieti, per concludere, è decisamente metaforica e scandaglia il “senso” e il “valore segnico” di ogni parola. Dall’inquietudine, alla speranza, al sogno: è in questo passaggio che le sue poesie acquistano un fascino particolare ed una prospettiva ove i temi da lei affrontati riproducono uno scenario di fede a fronte del quale l’anima della poetessa dirada le ombre esistenziali aprendosi a spazi di cielo nell’orizzonte dell’eternità.
In questa direzione il registro linguistico dai lei utilizzato, possiede una vera originalità e una nomenclatura che germina costrutti metaforici radicati nell’humus affettiva del cuore e nel bisogno di affidare alla fede gli accadimenti esistenziali e le stimolazioni dell’intelligenza creatrice.