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“Essere” prete in una società secolarizzata…di Domenico Pisana

L’OSSERVAZIONE DAL BASSO
Tempo di lettura: 2 minuti

E’ stata inviata in questi giorni ai sacerdoti della diocesi di Noto, da parte del vescovo Mons. Salvatore Rumeo, una significativa lettera dal titolo “Dal seno dell’aurora come rugiada io ti ho generato”, lettera di forte spessore evangelico e pastorale che merita di essere meditata in tutte le sue parti. Mi hanno colpito, in particolare, alcuni punti in cui Rumeo, scrive:

“Il sacerdote è separato dal mondo per una “chiamata” che lo rende partecipe dello stato sacerdotale di Gesù Cristo, come un prolungamento della sua incarnazione e della sua funzione di mediatore presso Dio. Una realtà sublime. Il sacro ministro così è veramente “alter Christus” che offre al Padre l’adorazione e la lode propria e della comunità e permette agli uomini di ricevere grazia e favori celesti”(Pierre de Berulle)(p.7)…

“…Il sacerdote che vive in Comunione con Cristo riesce a ‘stare’ con i propri confratelli, a condividere progetti di vera pastorale fraterna per il bene e la salute spirituale della comunità che è chiamato a servire”, (p.20).

“…Crediamo nei sacerdoti che abbiano il coraggio di dialogare con le tante contraddizioni della vita dell’uomo, che siano in grado di scardinare le logiche di questo mondo, facendo della trasparenza uno stile e della carità una scelta vissuta. Sacerdoti che sappiano uscire dalla solita routine e avvicinino ogni uomo non tanto alle cose da fare o ai comportamenti da assumere, ma al mistero da cui tutto nasce e si sviluppa: la morte e la speranza che viene da un sepolcro vuoto”, (p.25).

La lettura del testo di Mons. Rumeo ci spinge ad alcune considerazioni sull’essere sacerdoti, sull’ “essere” e “vivere” da preti, termine tradizionalmente molto più usato in mezzo al popolo di Dio e soprattutto dai non praticanti. Una riflessione urge anche alla luce del fatto che in Italia le vocazioni sacerdotali sono in calo, basti citare il caso della Diocesi di Alessandria, dove su 77 parrocchie ci sono solo 44 parroci.
Certamente la figura del prete, in questo nostro tempo, sta cambiando; tuttavia, non si può negare che, a fronte di mutamenti anche significativi, la sua presenza resiste. Il prete, pur a fronte di un processo di secolarizzazione crescente, continua ad essere un punto di riferimento per uomini, donne, bambini, famiglie, anziani, poveri e ricchi, vicini e lontani dalla comunità ecclesiale; insomma per tutto il popolo di Dio. Perché?, bisogna domandarsi! Perché il prete, al di là di pregi e fragilità nonché del rischio di ridurre il suo ministero a gesti da pubblico funzionario, continua ad essere, tutt’oggi, “l’uomo della presenza”: colui che “c’era e c’è”: c’era e c’è quando nasce una nuova vita; c’era e c’è quando muore qualcuno, quando una coppia si unisce in matrimonio; c’era e c’è quando una qualsiasi persona, chiusa nel non senso della vita , della solitudine e del buio senza futuro , ha bisogno di qualcuno con cui confidarsi.
Quando in quest’ultimo trentennio si è riflettuto sulla figura del sacerdote, confesso che ho nutrito perplessità allorché se ne è parlato facendo ricorso ad etichettature che lo hanno inquadrato in alcuni schemi mentali più umani che divini. Così del prete si sono costruiti “molti volti”, in quanto ognuno l’ha visto dalla propria angolazione con interpretazioni molto discutibili: il prete “operario”, il prete di “strada”, il prete “degli ultimi”, il prete “mistico e contemplativo” , il “prete “sociale”, il prete “intellettuale e filosofo”, e chi più ne ha avuto più ne ha messo.
Trovo queste aggettivazioni molto limitative ed elusive di un riflessione molto più profonda radicata nel vangelo.
Ogni visione del prete può avere un frammento di verità, tuttavia quando si parla di lui occorre liberarsi dai propri schemi mentali e rimanere fedeli ai testi evangelici. Quando si vuole delineare la figura del prete, la prima cosa da fare è quella di “liberare il prete”, nel senso che non bisogna renderlo prigioniero dei nostri schemi, dei nostri settarismi, dei nostri controlli e delle nostre censure, delle nostre abitudini, prudenze e istituzioni, al punto da falsificarne la sua vera identità evangelica. La liberazione consiste dunque nel lasciare che il prete resti lui stesso; liberare lui significa liberare noi: da quello che gli imponiamo.
Questa mia osservazione non ha chiaramente alcuna finalità di esprimere giudizi sui preti della Chiesa cattolica presenti nel mondo, ma soltanto di esprimere un punto di vista sulla base di una lettura del testo evangelico.
Credo infatti nel sacerdote che odora di vangelo, quello che si mostra e vive come “l’alter Christus”, quel Gesù Cristo che ha vissuto la sua profonda umanità nell’ottica dell’adesione alla volontà del Padre. Se leggiamo attentamente i vangeli, Gesù ha vissuto, e mi avvalgo dell’espressione di un autore francese, il Barreau, l’equilibrio dei contrari, tant’ è che egli è stato esigentissimo e profondamente comprensivo nello stesso tempo; è stato un maestro che però si è fatto servitore degli altri; si è dedicato al Padre ma anche guardato agli uomini; è stato un contemplativo che ha trascorso notti in preghiera ma anche un uomo di azione, forte e mite, delicato e all’occorrenza battagliero, abile e semplice; ha partecipato ai momenti di gioia della vita umana pur vivendo molto poveramente.
Alla luce di tutto questo, appare improponibile nel nostro tempo la figura del prete come di un “clericale impiegato ecclesiastico” o di un romantico dell’amore e della povertà o di un astuto diplomatico o di un guerrigliero rivoluzionario in cerca di potere; il prete deve farsi promotore di una rivoluzione diversa, non deve fare la rivoluzione sociale, ma vivere nella società da rivoluzionario secondo il vangelo.
Il prete che questo nostro tempo auspica è “un uomo abitato dal divino” e preso da una “passione”, o meglio appassionato per una “causa”: l’annuncio del regno di Dio. Egli non deve presentarsi come il portatore di un sistema di idee, di una dottrina morale o politica, ma come una persona che consegna la sua esistenza e tutte le sue energie psichiche, intellettuali, spirituali e corporali al servizio di questa “causa” di evangelizzazione. Come Gesù, secondo i vangeli, impegna la sua vita per questa “causa” con l’azione e con la parola, per cui svolge una notevole azione liberatrice, nel senso che risponde alle esigenze e alle domande di liberazione interiore e fisiche dell’uomo, allo stesso modo dovrebbe poter accadere per il prete di oggi. Vorrei il prete capace, come Gesù, di ricomporre, con il perdono dei peccati, il rapporto tra l’uomo e Dio liberando uomini e donne dal peso di esistenzialità fallite; vorrei il prete che va alla ricerca di una comunione con i più deboli, gli emarginati e disprezzati della società del nostro tempo, con le folle povere e in attesa di una parola di vita, con i peccatori e i pubblicani, con le donne e i bambini (Cfr Mt 9,10-13; Lc 5,19-32).
Credo nel prete capace di invitare a partecipare alla “causa” del regno di Dio , il prete che riunisce gente attorno a sé facendo ad essa fissare lo sguardo su Gesù e chiedendo di essere collaborato dai laici, religiosi, gruppi e movimenti ecclesiali nella sua missione; il prete che , come il Maestro, si immola e carica sulle sue spalle la croce per questa “causa”.
Credo, pertanto, sia importante oggi recuperare questa fisionomia evangelica del prete, atteso che fino ai primi decenni del Novecento, sotto l’influsso del positivismo, il prete è stato visto prevalentemente sotto l’aspetto sociale o filantropico. Scrittori come Balzac, Flaubert, infatti, collocano il “ parroco del villaggio al suo posto esatto sulla scala sociale, accanto al medico, al notaio e all’esattore. Fa parte della commedia umana”.
Il vangelo esige, invece, che il prete recuperi in se stesso la semplicità, l’empatia, l’accoglienza di tutti e non solo di quelli che pensano come lui, e ancora l’ umiltà della fede, la presenza del mistero e del soprannaturale che si è talmente rarefatta al punto da scomparire. Occorre che il popolo di Dio “ri-cominci” a guardare il prete con occhi nuovi, per scrutare il mistero della sua fede vissuta e testimoniata ; occorre un cambio di prospettiva evangelica: il prete non interessa più come uomo, ben “sistemato” in una classe sociale; interessa ciò che lo distingue da tutti, cioè la sua testimonianza evangelica, il mistero della fede nascosto nel fondo del suo essere.
Questo nostro tempo esige il prete di cui lo scrittore F. Mauriac ci offre una bella immagine nella sua opera “Il figlio dell’uomo”(1963), dove si legge:

“Questa pietra di scandalo per tanti spiriti ribelli, il prete […] costituisce in mezzo a noi il segno sensibile della presenza del Cristo vivo […]. Uomini ordinari, simili a tutti gli altri, chiamati a diventare il Cristo quando levano la mano sulla fronte di un peccatore che confessa i suoi falli e domanda perdono, o quando prendono il pane fra le mani ‘sante e venerabili’, o quando alzano il calice della nuova alleanza e ripetono l’azione insondabile del Signore stesso […]. Sì, degli uomini simili ad ogni altro, ma chiamati più d’ogni altro alla santità […]. Quale mistero in questo sacerdozio ininterrotto attraverso i secoli!” (1)

Il testo di Mauriac ci dà l’immagine del prete che si fa compagno di viaggio dell’uomo, che vive la sua storia portando sulle spalle tutti gli elementi più contrastanti: umanità e divinità, tempo ed eternità, forza e debolezza, grandezza e miseria.
Al vangelo non importano il prestigio, la dignità e la scienza che derivano dall’essere prete, perché queste cose – e prendo a prestito il curato di campagna Yabbé di Ambricourt – non sono altro che “un sudario di seta su un cadavere putrefatto” ; al vangelo importa il prete che riesce a piene mani a dare la pace, a stanare e sfidare , come Gesù, il maligno; importa il prete assimilato a Cristo, che irradia luce interiore, che nonostante la sua fragilità umana, i suoi limiti , le sue povere dita nodose e brulle, e le palme opache e callose, e le unghie piatte e dure, riesce a “gioire con chi gioisce”, “soffrire con chi soffre”; riesce, con la sua bontà e mitezza, spiritualità e amabilità ad attirare persone per condurle a Dio.
Di fronte alle sfide culturali del nostro tempo, c’è bisogno di preti che sappiano dire “parole forti” e infondere fiducia e speranza, insomma che siano non autoritari ma “autorevoli”. Il problema si pone a tutti i livelli e attraversa tutti i luoghi istituzionali in cui è in gioco la comunicazione della fede, la formazione, la crescita delle nuove generazioni: la famiglia, la scuola, la chiesa, la piazza, la cultura, la politica.
Il prete sa bene che egli non può sottrarsi al giudizio di cui parlano i vangeli quando paragonano “Il parlare di Gesù” con il “parlare degli scribi”: “le folle erano meravigliate del suo insegnamento, perché egli le ammaestrava come uno che ha autorità e non come i loro scribi”(Mt 7,28-29).
Non a caso i vangeli usano il termine greco “exousia” per indicare l’autorevolezza dell’insegnamento(didaké) di Gesù che desta meraviglia nei suoi ascoltatori, perché ciò che li colpisce non è né la grandezza del suo sapere enciclopedico, né la scrupolosa sottomissione alla tradizione dei padri, bensì la libertà e l’originalità del suo annuncio che parla al cuore dei suoi ascoltatori. Questo il prete che, a mio avviso, può risultare credibile nell’ottica del vangelo e nel soffio del Concilio Vaticano II.

(1) F. MAURIAC, II figlio dell’uomo, Bologna, Nigrizia, 1963, 115.).

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