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Eugenio Montale a 42 anni dalla morte…di Domenico Pisana

Il Premio Nobel per la Letteratura moriva a Milano il 12 settembre 1981
Tempo di lettura: 2 minuti

Nell’universo trascendente di Montale, si nota che anche la sua prosa, non solo la poesia, risulta ricca di presenze che hanno radici nel religioso. In “L’albero dell’arte” del 29 marzo 1962, ad esempio, il poeta per evidenziare come risulti “precario e misterioso il significato e il destino dell’arte nel mondo”, ricorre a due teorie contrapposte: quella del teologo Teilhard de Chardin, secondo il quale tutto tende verso un “punto Omega”, trascendente; quella marxista, tutta circoscritta nell’immanenza della razionalità umana.
Pur se Montale fa rientrare l’arte nello specifico delle due teorie, tuttavia rimanda la questione (“Se ne riparlerà, se permettete, – afferma il poeta – tra molte centinai di secoli, ammesso che bastino”) e conclude manifestando la sua apertura ad una “vita Formatrice”, utilizzando, non a caso, anche in prosa, come in molte sue poesie, la lettera, la “F”, con la maiuscola.
Nel ricordare l’anniversario della morte di Montale, avvenuta il 12 settembre del 1981, sono importanti due dati che inducono a riflettere. Il primo, la traduzione da parte del poeta ligure di una poesia di Eliot, ossia Canto di Simeone. L’interrogativo che sorge è come mai Montale, poeta della negatività, del non senso e del pessimismo e male di vivere, si accosti ad un testo eliotiano di grande apertura teologica; Canto di Simeone, infatti, è una poesia che si snoda in un chiaro orizzonte escatologico:

la mia vita leggera attende il vento di morte
come la piuma nel dorso della mano …..
in quest’età di nascita e di morte
possa il Figliuolo, il Verbo non pronunciante
(ancora e impronunciato)
dar la consolazione d’Israele
a un uomo che ha ottant’anni e che non ha domani.
Concedimi la pace……….
Fa’ che il tuo servo partendo
veda la tua salvezza…
(Da: Quaderno di Traduzioni, Canto di Simeone)

Se tradurre non è per Montale il semplice atto dell’ “exprimere”, dell’ “imitari”, del “transferre”, cioè del sostituire una parola con un’altra, ma un momento creativo in cui si realizza la dimensione del “convertere”, ossia del ricreare un testo accampando in esso tutto il proprio mondo interiore; se tradurre non è dunque transferre ma convertere, allora c’è da credere che la scelta di Montale di tradurre Canto di Simeone di Eliot, dove si parla di pace eterna, di salvezza, di vita dopo la morte, di consolazione del Verbo fatto carne, non sia casuale né mossa da intenti filologici e puramente linguistici, ma obbedisca piuttosto ad un processo della anima montaliana che tende ad appropriarsi e a riconoscersi nel testo per metterlo in relazione con la dimensione della fede cristiana maturata nell’ultima fase della sua vita.
Il secondo dato che mi sembra rilevante è quell’affermazione che ritroviamo in “Intervista immaginaria” del 1946, allorquando Montale afferma:

“L’avvenire è nella mani della Provvidenza, Marforio: posso continuare e posso smettere domani. Non dipende da me”.

Espressioni del genere è impensabile possano essere abbellimenti di un discorso, ma sono il chiaro riferimento ad un sentire che Montale sicuramente riteneva dovergli appartenere.
Nonostante Montale sia stato il cantore del non senso della vita, nonostante la critica lo abbia definito il poeta della disperazione, del pessimismo cosmico e universale e del male di vivere, egli ammette apertamente che “l’avvenire è nelle mani della Provvidenza”; egli sostiene che la contingenza dell’essere e dell’esistenza postula un essere assoluto e necessario, che non è semplicemente il motore immobile di Aristotele, ma Provvidenza nel senso manzoniano.
Anche a non voler identificare questa Provvidenza con il Dio della Bibbia, non c’è dubbio che nel suo tormento di vita e nel suo sforzo assiduo e problematico di conoscere la Provvidenza, spesso indagata, ora negata, Montale ha “cercato di vedere ciò che poteva esserci oltre la parete”, “ha bussato disperatamente come uno che attende una risposta”, ha attraversato “la scena di questo mondo”, per usare l’immagine paolina, non smettendo, sino alla fine della sua vita, di “battere il muro” ,di “interrogare” e di “interrogarsi” sul Mistero.

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