La lettura del libro di poesie di Maria Benedetto Cerro, “Prove per atto unico”, Macabor 2023, è simile, in un tempo di lacerazioni umane e di toni spesso aggressivi, all’entrata in uno “spazio di meditazione” nel quale i versi si configurano come “scrittura di luce” capace di fotografare la realtà dal fondo sintagmatico di correlate immagini, generatrici di rilievi modulati programmaticamente.
La poetessa, residente a Castrocielo in provincia di Frosinone, ha alle spalle un solido e rilevante percorso letterario; dal 1984 ad oggi ha pubblicato 10 raccolte poetiche, tra le quali segnaliamo Allegorie d’inverno (2003), finalista al Premio Frascati “Antonio Seccareccia”); Regalità della luce (Sciascia 2009); La congiura degli opposti (LietoColle 2012), Premio “Città di Arce”; Lo sguardo inverso (LietoColle 2018); La soglia e l’incontro (Edizioni Eva 2018).
Con “Prove per atto unico”, la Cerro riprende il tempo della vita nella sua antologia di bontà e gioia, di “azione e ragione”, di amore e pensosa solidarietà; si stringe attorno alle disastrose stagioni di un tempo segnato dalla tragedia della pandemia da Covid-19 che, negli ultimi anni, ha reso “le morti numeri in una sfera opaca”; scruta altresì le condanne dell’esistere, quelle che gli uomini scontano nelle fredde solitudini, dando la percezione che non sia più avvertita “Nessuna differenza / tra il sembrare e il morire”.
L’universo poetico della silloge si dispiega con motivazioni gnoseologiche colte e raffinate che puntano ad una dimensione poematica connessa con la volontà di proporre una visione del mondo allargata su spazi planetari e su condizioni esistenziali globali, sospese tra il contingente e l’eterno.
E così la struttura della raccolta, suddivisa in sei sezioni( “Versi della malapena”, “La mala hora”, “I luoghi dei labirinti”, “Tentativi di riconoscimento”, “La casa dell’armonia” “I Giuramenti del vento”) appare scandita dai movimenti di un logos generatore che riverbera nell’ intensa suggestione delle poesie, divenendone quasi la cifra epifanica. La valenza semantica dell’ “io poetante” di Maria Benedetta Cerro porta il suo impianto speculativo dentro tematiche ontoetiche come “il vivere e il morire” tra realtà e finzione dentro le scena di questo mondo:
Non pensare alla morte / mentre la morte impera.
È il suo tempo – e se lo abbia intero –
Pensa secondo l’infanzia / che sa la morte come un gioco
una parola fra le altre
– che significano il nulla che sono –
Pensa alla vita come un rotolo chiuso
– aprilo ogni giorno per la prima volta –
Credi alla sua lunghezza / e non t’illuda il peso
– secondo lo spessore è la lunghezza
secondo l’immaginazione è la bellezza –
Pensa alla morte come a te stesso
– al suo diritto d’esserti ombra –
Perché chi non ha ombra / non è vivo (pag. 24)
Piace di questo libro la dialettica tra interiorità ed esteriorità, che poggia su una circolarità ermeneutica tra visione, dolore e memoria, su una “ricerca dell’alterità” riscoperta come “abitazione” della Trascendenza dentro se stessi, come “casa dell’anima” ove prendere consapevolezza sia della predisposizione al bene, sia della certezza che nulla è certo e che spesso le certezze che si hanno non sono altro che un soffio di vento; i versi della poetessa sembrano quel luogo ove prende corpo, da vari sentieri, quella parola chiesta al pensiero come segno di cammino; ove rifulge ciò che l’esperienza le dona: l’affanno o la gioia dei giorni, il fervore della meditazione, la consapevolezza d’aver trovato la frase che promette e l’atmosfera che inventa ed evoca e definisce.
I versi di “Prove per atto unico” sono l’attimo della meditazione di Maria Benedetto Cerro sulla vita, scritta fra azione e riflessioni, allorché ella si cerca nelle pagine che legge, o si autentica in un irrequieto rapporto letterario; e così, la sua scrittura affiora da nuclei indicativi, s’arricchisce dell’etimo tonale e prosegue in una acquisita semantica riassuntiva ed esplorativa; e così, i concetti dialogano con le estetiche della sua impegnata costruzione versifìcatoria che scorre a un dialogo d’anima con morbido fraseggio ed essenziale grafia gnomica:
Dei gerani ridotti a scheletri piegati
alcuni restano vivi
e stretti alla lanterna forata
che manda dal fregio luce arabescata.
Una ciocca di fiori quasi schiusi
un verde illuminato
un’isola estiva il crudo inverno sfoggia
come non avesse le altre piante ucciso
e fosse gloria sua quel piccolo miraggio.
Così agli umani
basta uno sguardo luminoso
un sorriso
a fugare il sapere doloroso
d’essere sospesi al caso. (pag. 51)
Ogni testo è preparato da Maria Benedetto Cerro con scelta preferenziale di fatti emblematici che dovranno assumere fisionomia lirica; la poetessa vive il fremito di una materia cui dà forma, privilegia scelte metriche e lessicografiche che sono poco presenti in tanta poesia minimalista segnata da psicologismo intimistico; la Cerro scarta e sceglie a seconda della repentinità delle analisi e, quindi, passa a una narrazione feconda, espressiva, consistente di profili:
Non v’è pagina bianca
più nuda dell’anima sola.
Eppure condizione transitoria è quella dell’attesa.
Non più al concetto di tempo essa appartiene.
Dice – ti aspetto – Si fa luogo.
Ed io ti troverò / dovunque aspetti
– essenza sine-cera del sempre assente incontro –
È la nostra condizione
essere separate da uno specchio.
Per naturale opposizione
una vede se stessa e l’altra il nulla.(57)
L’esistenza umana è spesso segnata dalla solitudine e dall’ “attesa”. “L’attesa” (che non è aspettare, ma un tendere “verso”, dal latino “ad – tendere”) è dinamica, intuitiva, prospettica, tende verso la “realtà noumenica” intravedendo il farsi di qualcosa; in questa prospettiva dell’attesa, la poesia di Maria Benedetto Cerro è disvelativa, nel senso che toglie il velo alla realtà per offrirsi ai contemporanei come “spazio di autolettura interiore” così da tendere verso il superamento della paura del proprio inconscio puntando ad armonizzare il cuore con la ragione, l’istinto con il discernimento e superando il limite di una poesia che “interloquisce” per diventare “poesia perlocutoria” che si fa linguaggio capace di influenzare percezioni, pensieri, comportamenti e dunque diventare canale di nuovo umanesimo, di trasformazione e cambiamento.
Per la poetessa “l’attesa” diventa quasi un “veritare nel mistero”. Lei non possiede la verità, come non la possiede alcun uomo, ma la intuisce e, così, si dirige verso di essa per indagarla, scoprirla, denudarla e, una volta compresa, indicarla sia con il cuore che con la mente ricorrendo alla versificazione.
Quella di Maria Benedetta Cerro è dunque una poesia complessa, di non facile lettura, quasi avvolta in un “continuum concettuale ininterrotto”, in un alone “misterico”, e piace perché è una poesia che opera una sorta di “iniziazione” del lettore al mondo misterioso dell’esistenza, aprendo e chiudendo, dicendo e non dicendo, spiegando e non spiegando, e quindi lasciando la soglia aperta alla comprensione dello stesso lettore, al fine di far trasalire in lui “una verità” esistenziale che, a questo punto, costituisce un segreto il cui svelamento diviene, al contempo, scioglimento di un problema che il segreto stesso raffigura, e rivelazione per il mistero che custodisce. Questo spiega, ad esempio, perché il grande Ungaretti diceva che “la poesia è poesia quando porta in sé un segreto”.
Per concludere, riteniamo che con questa sua nuova silloge poetica, Maria Benedetta Cerro si muove dentro l’universo poetico contemporaneo con una propria autonomia e una padronanza di ricerca linguistica, e le sue scelte tematiche e creative vanno oltre le ripetizioni di canoni spesso retorici, dilatando in suggestione la melodia della cadenza lirica e rendendo il suo poetare “un atto della mente e del cuore” guidato da movenze interiori che permeano di dinamismo le sue modulazioni inventive.
La sua raccolta sale sul palco della vita non per recitare ma per disvelare apparenze e contraddizioni, solitudini e cammini al buio, per leggere il nostro tempo con la consapevolezza che
Il pensare e il tacere non si guardano in faccia.
Fianco a fianco edificano
viaggiano / sognano.
Se parlano
qualcosa rovinosamente cade
Qualcuno dice – io lo sapevo –
Invece non sa.
Uno solo è cieco e veggente. (pag.79)