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Per una Chiesa in stato di evangelizzazione…di Domenico Pisana

L’OSSERVAZIONE DAL BASSO
Tempo di lettura: 2 minuti

Per rimettere la Chiesa in stato di evangelizzazione è in corso in Italia un cammino sinodale in tutte le diocesi del paese. In un tempo di secolarizzazione come quello in cui viviamo, un Sinodo (sinodo, si badi bene, deriva dal greco σύν “con, insieme” e ὁδός “via, e significa “camminare con-insieme sulla via”), è la scommessa che la Chiesa è chiamata a correre. Sì, perché se c’è una cosa molto difficile nella Chiesa, è proprio il “camminare insieme”. Richiede quindi un atteggiamento di fiducia nell’azione dello Spirito, un’apertura di cuore perché Dio possa operare in coloro che vogliono dare il loro contributo al cammino comune, e perché la Chiesa possa con efficacia annunciare oggi il vangelo nel mondo. Tutto questo, certo, è compito, a livello pastorale, delle comunità ecclesiali, ma in particolare dei vari organismi nazionali, regionali, diocesani e parrocchiali, degli organismi di corresponsabilità e partecipazione, non chiaramente quelli solo sulla carta ma operativi, nonché di presbiteri e laici , di gruppi, movimenti ecclesiali e comunità religiose.
Questo interrogarsi della Chiesa sul suo percorso contemporaneo, sotto il pontificato di Papa Francesco, nasce dalla presa d’atto che è sempre più forte il processo di secolarizzazione che sta caratterizzando il nostro tempo. Secolarizzazione è un termine che viene da “saeculum”, cioè secolo, e che sta inducendo a pensare in questo modo: l’uomo e le cose sono autonomi, non c’è nel mondo e nella storia alcun intervento soprannaturale. In pratica, si sta verificando un mutamento di coscienza in base al quale il mondo non è più affidato a forze estranee all’uomo, non è più luogo della presenza di Dio, ma esso è unicamente affidato alla libertà umana ed ha il senso che l’uomo gli dà con la sua azione e il suo intervento.
E’ sufficiente, si dice, che ogni uomo, nei vari campi della società in cui opera, faccia laicamente del bene, sia giusto, accogliente, generoso, rispettoso, aiuti i più poveri, e tutto è a posto: per fare questo non c’è bisogno di credere in Dio né di una Chiesa che lo ricordi. E questo può anche accettarsi; il problema è che l’uomo pur sapendo che deve agire così, non riesce il più delle volte ad essere conseguenziale, a meno che egli non abbia un tornaconto.
Oggi la secolarizzazione sta rafforzando l’idea dello scollamento tra società e cristianesimo, per cui anche i cristiani cominciano ad orientarsi, nel costruire la convivenza umana, verso principi e istanze basate non più sulla fede cristiana, ma su “patti e principi” che gli uomini stessi si danno.
La secolarizzazione, garbatamente, si sta ammantando di una venatura ideologica: non combatte la fede cristiana, anzi la rispetta, ma tende ad inculcare l’idea che si può vivere senza Dio; anzi, spesso chi è senza Dio agisce meglio dei cristiani che dicono di credere in lui. In una parola, la secolarizzazione – direbbe Joseph Gevaert – diventa “l’indicazione di una ideologia anti-metafisica ed atea.” Se, oggi, nonostante la popolarità di Papa Francesco, sovente si respira un clima di assenza di Dio e del trascendente, un laicismo che tende ad escludere tutto ciò che richiama l’uomo al pensiero di Dio, specie nella vita pubblica, è perché la secolarizzazione tende ad imporre una totale immersione nella terrestrità emarginando la fede come valore fondamentale dell’esistenza.
Ogni uomo è sicuramente libero di credere di poter fare tutto il bene possibile anche senza Dio, ma chi segue Gesù Cristo trova di fronte le seguenti parole del nazareno: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv. 15,5).
Che la secolarizzazione continui a dilagare lo dimostra un dato che sicuramente non può non far riflettere la Chiesa in cammino sinodale, e precisamente l’indagine pubblicata lo scorso mese di luglio dal mensile “Il Timone”, in collaborazione con l’Istituto Euromedia Research di Alessandra Ghisleri. Secondo la predetta indagine, i cattolici che vanno a messa tutte le domeniche, sul totale della popolazione italiana, è del 13,8%. Rispetto alla percentuale del 2001, che era del 36,4%, la situazione di oggi è davvero inquietante, specie se si considera che l’attuale pontefice ha spinto molto per una chiesa “ospedale da campo”, una chiesa in prima linea sulla questione dei migranti, dell’accoglienza, dell’inclusione, dell’ambiente, del dialogo tra le religioni, delle questioni legate a quelle che il suo predecessore definiva valori non negoziabili.
In un quadro così delineato, la Chiesa necessita, senza dubbio, di diventare sinodale, di rendere credibile la sua “essenza e presenza segnica”, chiedendosi come vivere la sua missione evangelica, come comunicare la fede in un mondo che cambia, come affrontare il problema di questa comunicazione, qual è il sitz im leben cioè il contesto situazionale nel quale incarnare il vangelo tenendo conto delle diversità culturali e multietniche, delle contraddizioni sul piano sociale, etico, politico. Su questi “nodi problematici” si gioca la fattualità di un Sinodo chiamato ad operare una riflessione e un sintetico approfondimento all’interno di una prospettiva ben precisa: “l’annuncio del vangelo “nel nostro tempo.
La finalità di un cammino sinodale è operare, sotto il soffio dello Spirito Santo, un discernimento su come far acquisire la coscienza che la missione evangelica non è compito solo dei sacerdoti, dei vescovi e diaconi, ma di ogni battezzato, di tutto il popolo di Dio ove ogni cristiano è “sacerdote, re e profeta” come afferma il Concilio Vaticano II, e pertanto chiamato a dare un contributo responsabile, attenuando quella visione in cui il prete in una comunità è il “tutto” che decide e opera nella dimensione del sacro. Credo sia oggi necessario un “recupero di semplicità”, un ritorno alla “originalità e alla autenticità” del vangelo, evitando sovrastrutture e quant’altro a volte si pone in essere nel tentativo di farlo accogliere all’uomo del nostro tempo.

Paolo di Tarso, il grande annunciatore del vangelo
Nel porsi il problema dell’annuncio del vangelo, una chiesa in cammino sinodale penso possa avere come punto di riferimento essenziale un grande testimone della fede: San Paolo, l’uomo della parola, una personalità straordinaria, un personaggio che da difensore della legge mosaica fino a perseguitare duramente gli apostoli di Cristo, a partecipare alla lapidazione di Stefano e a divenire uno dei campioni della persecuzione, si trasforma, per grazia del Risorto, nel più grande araldo della fede e del vangelo. Vorrei pertanto offrire all’ attenzione la lezione di Paolo, il quale, quando si accinge a testimoniare il vangelo ai Corinzi, si presenta con semplicità:

“Quando son venuto tra voi, fratelli, per farvi conoscere il messaggio di Dio, l’ho fatto con semplicità, senza sfoggio di parole piene di sapienza umana. Avevo deciso di non insegnarvi altro che Cristo, e Cristo crocifisso” (1 Cor.2,1-2).

Paolo comunica con semplicità, non intende dare qualcosa di sé, egli si reca da un posto ad un altro con il desiderio di incontrare nuove persone cui comunicare la sua scoperta, il suo decisivo incontro con Cristo. Annunciare il vangelo, per Paolo, non significa fare una dissertazione teologica sulla resurrezione di Gesù, ma proclamare una “esperienza rigeneratrice, trasformatrice” della sua esistenza”; significa “dire apertamente” quello che ha visto, ha sentito nel suo cuore; significa far capire che la conoscenza di Cristo è necessaria al mondo, perché il vangelo tratta ciò che interessa l’uomo.
Annunciare il vangelo per Paolo non significa accontentarsi di proclamare la parola; egli va più in là e a partire dall’annuncio di Cristo vuole costruire quella che l’evangelista Luca chiama “la comunità di quelli che sono venuti alla fede”, cioè di quelli che sono diventati ascoltatori della Parola. L’annuncio del vangelo non si ferma all’astrattezza, ma diviene realizzazione concreta, si fa comunità. Paolo costruisce comunità di persone, dove si gioisce e si soffre insieme, dove si loda e si ringrazia il Signore, dove si cresce e si lavora per soccorrere i più deboli e i più poveri:

“Voi sapete – dice Paolo – come io mi sono comportato con voi per tutto questo tempo: dal primo giorno che arrivai in Asia fino ad oggi. Ho lavorato per il Signore con profonda umiltà. Ho sofferto e ho anche pianto… Voi sapete che non ho mai trascurato quello che poteva esservi utile: non ho mai cessato di predicare e di istruirvi sia in pubblico che nelle vostre case… badate a voi stessi e abbiate cura di tutti i fedeli. Ed ora, ecco io vi affido a Dio e alla parola che vi annunzia il suo amore. Egli ha il potere di farvi crescere…vi ho sempre mostrato che è necessario lavorare per soccorrere i deboli” (At 20).

L’annuncio del vangelo di Cristo per Paolo non consiste, dunque, nell’insegnare una dottrina, una morale, un complesso di idee, ma nel testimoniare l’esperienza dell’amore del Cristo, “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani”, con “parole e i gesti”.

Il discorso di Paolo all’Aeropago di Atene

La figura di Paolo è paradigmatica nella testimonianza del vangelo perché l’apostolo riesce ad portare l’annuncio dimostrando di sapere entrare in dialogo con altre culture. In tal senso è significativo il famoso discorso tenuto all’Aeropago di Atene e riportato in At 17,17-31.
Paolo discuteva ogni giorno ad Atene con filosofi epicurei e stoici, i quali dicevano fra sé: “cosa vuole insegnare questo ciarlatano”. Un giorno lo invitano ad un confronto perché vogliono sapere quale è questa nuova dottrina da lui insegnata. Paolo non si sottrae al confronto, e nell’Aeropago ateniese, culla della cultura greca, tiene un discorso alla presenza di cittadini ed intellettuali ateniesi.
Cosa dice Paolo? Come imposta la sua riflessione. La comunicazione di Paolo ruota attorno al alcuni elementi essenziali della fede.
Paolo anzitutto sceglie un punto di partenza concreto e comprensibile per gli ateniesi, e precisamente l’altare al dio ignoto”. Paolo infatti esordisce dicendo:
“Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete timorati degli dei! Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato un’ara con l’iscrizione: al dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio”.
Paolo, dunque, contestualizza il suo discorso nella cultura dei suoi ascoltatori, non parla astrattamente, assume un atteggiamento di dialogo aperto e costruttivo. Paolo partendo dalle divinità greche, trova il motivo per annunciare il suo Dio, il Dio della creazione, il Dio che non assomiglia a delle statue, che non abita templi, che deve essere cercato per essere incontrato e riconosciuto, che è vicino all’uomo, tant’è che afferma:
“Il Dio che ha fatto il mondo non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa”.
Paolo quindi passa poi ad annunziare Cristo morto e risorto, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, provocando lo sdegno degli ateniesi che lo lasciano e se ne vanno dicendo “Tu sei pazzo”. Si, era pazzo di Cristo! La testimonianza di Paolo è una lezione che una “Chiesa sinodale” dovrebbe fare propria, perché dà la peculiarità dell’annuncio cristiano e lascia chiaramente intendere che l’annuncio del Vangelo esige il dialogo, il quale non fa venir meno la verità del messaggio.
Il dialogo, che non esclude nessuno: credenti, non credenti, agnostici, scettici, persone di altre religioni, è sicuramente necessario ad una chiesa sinodale aperta alla società del nostro tempo, ma con la consapevolezza che tale dialogo richiede atteggiamenti di empatia, di ascolto e di accettazione dell’altro, e con la certezza che l’ identità dei cristiani che hanno accolto Gesù con la mente, con il cuore e con tutte le loro forze, ha sempre presenti queste parole del nazareno:

Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli... (Mt 10,32-33);

ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25,35-44).

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1 commento su “Per una Chiesa in stato di evangelizzazione…di Domenico Pisana”

  1. Sulla storia di San Paolo preferisco sorvolare perchè non saprei parlare di Lui come miracolo del Signore per averlo illuminato o meglio redento, o parlare di Lui come una leggenda. Leggenda nel senso che ha fatto grande la Chiesa. Paolo è anche l’icona della chiesa politica-finanziaria in nome e per conto di Cristo, anche se la quasi totalità dei fedeli ne ascolta le parole che sono molto spirituali.

    Sulla Chiesa di oggi:
    Dalle parole del Prof. Pisana posso capire la conferma di una Chiesa malata nello spirito e alla ricerca della giusta via.
    Indire un cammino sinodale, è come i preti quando fanno i loro ritiri spirituali, solo che questo è più in grande, come un grande fratello. Che la Chiesa abbia capito che si è “smarrita” potrebbe essere un buon segno, ma chi la deve rimettere sulla retta via prima debbono essere i preti con i suoi generali a darci l’esempio. Non è che Francesco stia dando l’impressione di seguire il Vangelo come Gesù predicava, quando gli capita di predicarlo è sempre per qualche fine politico e non religioso. Oltre che orientato e pilotato! Poi possiamo giudicare o condannare i fedeli perchè non vanno a messa dalla prima comunione. Questo potrebbe essere una giustificazione per quel 13% di fedeli che va a messa.
    Come dicevo, questo sinodo nella sostanza dovrebbe essere il principio della riconversione al Cristianesimo da parte dei prelati e dei fedeli, al punto in cui siamo arrivati ove ormai è tutto compromesso, l’impresa mi sembra abbastanza ardua se non velleitaria. Non tanto se ci sia la fede o la volontà di rimettere Dio e Gesù al suo posto da parte di tutti , ma di come la società è proiettata verso un globalismo multietnico per non parlare dell’Intelligenza Artificiale. Qualche mese fa proprio in Germania in una chiesa anglicana, l’omelia è stata scritta e letta da un avatar. Quanto spirito umano ti possa dare una macchina o quanto ti possa suggestionare l’anima non saprei, ma se l’orientamento sociale è questo, penso che dobbiamo pensare seriamente a rifarci un nuovo Dio.

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