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“Persistenze”, il libro di Stefania La Via… di Domenico Pisana

Tempo di lettura: 2 minuti

Poesia di respiro memoriale assecondata dal bisogno di ripercorrere attimi, emozioni, condizioni e situazioni legati al divenire del tempo, è quella che Stefania La Via offre al lettore nella raccolta poetica Persistenze. Parole, memorie, frammenti, Màrgana Edizioni, 2021.
La sua parabola esistenziale è sicuramente infittita di contenuti lirici e di processi stilistici che le permettono di raggiungere un orizzonte nel quale la “geografia della memoria” si confronta fortemente con il drammatico cambiamento, in senso quantitativo e qualitativo, del tempo passato e presente. E, così, la poetessa fruga nei ricordi, e con il Pascoli sembra quasi dire che “il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo”.
Ma cosa c’è dentro la poesia di Stefania La Via e quale universo “noumenico – semantico” abbracciano i suoi versi? E’ la prima domanda che il lettore si pone leggendo la raccolta di poesie.
Il volume poggia su una dicotomia di momenti creativi che si integrano nell’unità di una poetica che altro non è che “l’attimo in versi” della sua vita, attimi nei quali si stagliano sguardi, presenze, figure, oggetti, paesaggi, orizzonti di un microcosmo esistenziale.
Stefania La Via, docente di Lettere che vive Erice, ha sicuramente alle spalle una robusta esperienza poetica che affonda le radici nel 1998, allorché esordisce con la silloge “Fuori tema. Canti del silenzio”, cui sono seguite “e- mail” (2002) scritta a quattro mani con il poeta Renzo Porcelli, e “La fragilità difficile” (2004); a ciò sono da aggiungere sia i contributi poetici e letterari apparsi in numerose antologie e riviste, sia la cura, dal 2006, della Rassegna letteraria “Terrazza d’autore” che promuove la conoscenza e la lettura della grande poesia contemporanea con readings, podcast radiofonici, eventi e performances teatrali.
Leggendo le varie sezioni della raccolta, Stefania La Via non poteva dare titolo migliore alla sua opera , e cioè “Persistenze”, un titolo che ci fa pensare alla filosofia della persistenza secondo l’autrice serba Marina Abramović(1) quando sostiene che l’arte si edifica sulla copertura di ogni frammento e lavora, si cimenta, convive con la persistenza del particolare; i lemmi scelti dalla poetessa trapanese, ossia “parole, memorie, frammenti”, in fondo altro non dicono se non che non è possibile sancire con un’ultima parola il confine tra arte e vita, atteso che la nostra vita si prospetta come come un “insieme di persistenze” dentro il quale ciò che persiste è proprio una Weltanschauung di parole, memorie e frammenti che diventano – direbbe la Abramovic – “presenza scomoda, incipiente, massiccia, specie quando lo spettatore sceglie di fronteggiarla de visu senza barriere, mediazioni di massa, filtri volgari”.
Le “persistenze” sono, insomma, il “battito” che ritma la vita dell’uomo, battito che assume il volto di mutevoli sentimenti, sensazioni e atteggiamenti di vita come costanza, insistenza, ostinazione, perseveranza, pertinacia, tenacia, caparbietà, pervicacia, fermezza, stabilità, pazienza, equilibrio, immutabilità, incrollabilità.

1. Le parole che interrogano la vita

In “Persistenze” , i versi di Stefania La Via diventano, così, un invito al lettore a compromettersi realmente “con” e “per” l’esistenza, cercando nuovamente quanto possa sempre legare e rinsaldare la natura e la storia alla terra stessa. Le liriche della prima parte hanno come categoria portante “la parola”, che è il linguaggio detto in situazione di vita e in contesto di relazione, è parola che “persiste” e dura nel tempo”:

“Mi nutro di poesia a lunga scadenza.
La prendo a piccole dosi dallo scaffale […]
la rumino, la disfo, la rifaccio
nuova, la rimpasto con paure
e speranze che sento mie”.
(Di verso in verso)

“A volte riemergi rigogliosa
e inaspettata
dai tortuosi meandrici carsici
ove per anni hai vissuto
inabissata…”
(Alla poesia)

“In un particolare taglio di luce mi fermo
e riconosco la mia vita
attratta dal dettaglio di qualcosa
da una persistente permanenza…”
(Fare una poesia”)

Dentro la parola poetica di Stefania La Via non c’è solo la sua vita, ma ognuno trova se stesso, trova l’uomo “animale ragionevole”, l’uomo – come dice la Bibbia – soffio e abisso che solo Dio può riempire. Poetare non è per la poetessa – come afferma in un suo verso – “ un’amena passeggiata” né un semplice descrivere; non è neanche analizzare se pur con sentimento, né raccontare anche se con le parole ella cerca in qualche modo di narrarsi.
Poetare è per lei interrogare la vita, provocare domande, seminare dubbi e inquietudini; poetare è aiutare a ricomprendere cosa significa , oggi, essere“ persona”, cosa significa un sentimento d’amore, un gesto di bellezza, cosa è la libertà, la pace, il “nostos” , la “transitorietà” , “La malìa del nulla”, “il tanto che bussa oltre la parola” specie quando si verificano accadimenti che lasciano sgomenti e atterriti come quelli di questo biennio pandemico, e che conducono l’uomo contemporaneo verso un orizzonte di catastrofe dove tutto sembra essere perduto e senza speranza.
Il rapporto “poesia – interiorità – verità” trasuda, dunque, fortemente dal sentimento poetico della poetessa, che “persiste” quasimodianamente nella ricerca della verità, quella “verità di senso” che la poesia è chiamata a far scoprire all’uomo mediante un recupero della dimensione valoriale degli accadimenti, lieti e tristi, della vita, aiutandolo a dare un significato alla gioia o al dolore che in questa fuga continua di giorni continuano ad abbattersi nel nostro micro e macrocosmo esistenziale.

2. La memoria e le sue impronte: “Ricordo, dunque sono”

Nella seconda parte del volume, “Memorie”, la poetessa costruisce un itinerario lirico dove ciò che “persiste” è la memoria; parafrasando un detto cartesiano, Stefania La Via sembra quasi voler dire: “Memini, ergo sum”, “Ricordo, dunque sono”. E in questo ci viene in aiuto anche Freud il quale afferma nel suo libro “Il sogno”: “Se io riesco a ricordarmi un avvenimento anche molto tempo dopo che è accaduto, questa permanenza nella memoria mi prova il fatto che quell’avvenimento ha esercitato allora una profonda impressione su di me”(2)
La memoria sembra quasi quella “tavoletta di cera” posta nell’anima di cui parla Platone nel suo Teeteto: in essa sono impressi i ricordi della poetessa, come delle impronte:

“…E questi versi come impronta digitale
relitti di viaggio, chiosa di un testo disperso
che solo il commento tramanda.
Nudità, resistenza”.
(1973)

…i ricordi si affastellano
inesplorati e anneriscono
come l’argento se non prende aria”.
(Memorie)

“Si stagliano i pini
verde spuma le chiome contro l’azzurro
intatto, senza nubi”.
(Estate)

“…Esplodono le arance
in questa primavera
fuori tempo
e i gerani si ostinano
a fiorire
e fiduciosi si sporgono
alle soglie dell’inverno…”
(Primavera fuori tempo)

“Si sfocano i ricordi dolorosi,
ne resta un’eco sorda
come l’orma dei quadri a lungo appesi alla parete…”
(Ferite)

Con questi e tanti altri versi della sezione “Memorie”, Stefania La Via ci dice che i ricordi “persistono” nella memoria come qualcosa di inesauribile, di insopprimibile, di consolatorio; i ricordi sono identità e conoscenza, hanno la capacità di scorrere in avanti e indietro provocando un senso di liberazione e cambiando nel tempo il modo di porsi di fronte alla vita. Nelle “memorie” della poetessa, altresì, il ricordo sembra essere – direbbe Sören Kierkegaard “un’ombra che non si può vendere, anche nel caso in cui qualcuno volesse comprarla!”
Emblematica di questo quadro evocativo è proprio la già citata poesia “1973”, dove l’autrice riannoda nei filmati della memoria il “tempo trascorso / in fretta /col suo buon carico di storia”, e si accorge che “l’abito color del tempo” risulta stretto e che forse qualcosa di se stessa “si è perso / tra le fessure della vita / pur se ostinato a tenere forma / nel gioco cangiante delle varianti”.

3. “L’inesauribile segreto” dei frammenti

La terza e ultima sezione del volume, “Frammenti al tempo del Coronavirus”, è anche quella più ricca di suggestioni, atteso che si snoda in un susseguirsi di frammenti che si  intrecciano avendo come background il tempo della pandemia. La poetessa scava come un minatore nel fondo smarrito del proprio essere, nei meandri più nascosti dell’inconscio e dell’insondabile, facendo sì che la sua parola, il canto, diventino “reminiscenza” di “quell’inesauribile segreto”(Ungaretti) al quale la lingua può corrispondere solo con il divario ineliminabile di un “fragmentum” legato alla struttura del tempo.
Dai “frammenti” trasuda assenza di certezza, di unitarietà e totalità, bisogno di affrontare il disorientamento generato da “profeti di sventura /e contrabbandieri di speranza” (frammento quinto) emersi al tempo tragedia del coronavirus. La poetessa intuisce che “Tutto è ovattato, distante/ il pianto, il dolore, il legno delle bare allineate”(frammento sesto); erra senza meta con la consapevolezza che “Dall’esilio /nessuno torna uguale”, ( frammento decimo), ma al tempo stesso sa di dover continuare ad assecondare il desiderio inesauribile di approdare al di là della linea di solitudine per ritornare a saper “reimparare ad abbracciarsi”:

“…Non tratteniamo , proviamo
ad allentare la stretta, quando lo faremo,
abbandoniamoci a ciò che viene
al dono
della resa.”
(frammento ventunesimo)

In questa terza parte della silloge, dunque, le diverse significazioni come la solitudine, la privazione sociale, le scuole e le piazze chiuse, l’essere in una condizione giornaliera “di morte senza morte”, ora affiorano, ora si eclissano, in un’alternanza continua di senso afferrato e senso perduto, verso un centro che si allontana proprio quando sembra farsi più vicino.
E così i vari frammenti poetici della silloge finiscono per comporre altri frammenti (in tutto cinquantatré), per attrarre, instradare, accelerare, richiamare, armonizzare il saputo, il conoscibile, l’incomprensibile, il dato, l’inedito, la distanza fra l’essere e il non-essere.
Il virus, questo “mostro invisibile” che divora la vita e rende prigionieri, è descritto con una versificazione che alterna toni lirici ad orizzonti prosodici; dai testi emergono situazioni di vita difficili, gli effetti socio-antropologici di una pandemia che ha costretto ogni uomo a riprogettare il proprio cammino, a darsi nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative:

“…A noi è precluso il mondo
dei contatti, ogni cosa è nemica
mentre la linea della libertà
sfuma indefinita, si allontana
si fa miraggio, pulviscolo, amputazione
e la paura dell’altro ci costringe a vivere
a distanza di sicurezza dalla vita”.
(frammento trentaseiesimo)

“Soffoco.
Voglio aprire piccole finestre
e tornare a respirare aria nuova
ma un carceriere spietato mi spinge
indietro
col suo fiato giallo e polveroso…”
(frammento quarantaseiesimo)

“Quando arriverà la libertà
voglio nutrirmi
di parole aperte
come mare, piazza, amare
baciare,
cantare,
sognare…”
(frammento quarantanovesimo)

Come si evince da questi versi, Stefania La Via ha fatto assurgere a poesia un tempo di tragedia, utilizzando categorie liriche che riguardano proprio la relazionalità negata, i rapporti, i sentimenti più genuini, all’interno di un paesaggio che non è solo quello spazio – temporale pandemico, ma quello dell’anima che sa trovare la sua medicina in parole condivise nel silenzio.
Anche quest’ ultima parte ha una sua fascinazione che si sostanzia in un linguaggio che fa prendere consapevolezza di un “tempo negato”; i toni, il ritmo e le immagini dei “frammenti” fanno riflettere e provocano sensazioni ove ognuno può ritrovarsi e rintracciare se stesso.
In questa silloge poetica, per concludere, essenziale, appare il bisogno della poetessa di osservare ed abitare le cose, di addentrarsi, con la tenerezza di una donna sensibile, nelle “forme del quotidiano”, direbbe Giulio Ferroni. In “Persistenze” c’è, in buona sostanza, l’insieme di colori di una vita segnata di “parole, ricordi e frammenti”, un insieme che rivela il bisogno forte ed appassionato della poetessa di vivere “oltre il tempo negato”, ricorrendo ad un linguaggio ora lirico , ora contemplativo ora di impronta prosodica e realistica nel quale ella stessa si percepisce quasi come personaggio che cerca di ricucire i fili e le immagini della memoria.
La poesia di Stefania La Via è certamente un atto di amore verso la vita, è lo specchio sul quale fa scivolare lembi di tempo e d’anima che hanno toccato la sua esistenza, e dove si coglie, attraverso il ricordo, la fantasia e l’immaginazione, un rapporto tra terra e cielo, tra un nuovo tempo atteso e sperato e il tempo della poesia, il tempo del linguaggio, il quale recuperando i ricordi del “vero” tempo, quello vissuto nella normalità, determina una sorta di ricongiungimento.
I versi di questa raccolta hanno così il sapore della ricordanza, cioè di un sentimento dolce e amaro. Se quel che Stefania La Via ha vissuto dentro non c’è più, se quel “suo essere” in un tempo memoriale che non può più ritornare ha creato in lei una separazione, ecco che il ricordo diventa un sentimento che la poesia trasfigura nella sua simultaneità di “presenza della dolcezza e del dolore”, e il tutto nel quadro di una rinnovata “persistenza” nell’affrontare con determinazione il senso della vita:

“Fermarsi al bordo delle parole
richiamarle al senso
e osservare come dall’orlo
l’abisso dei pensieri
e trattenerli
restituirli
non farli perdere
non lasciare che disertino
aiutarli a resistere
come piante ostinate a sopravvivere
per sola memoria d’acqua”.
(frammento cinquantatreesimo)

________________

(1) https://www.studiumbri.it/arte/filosofia-della-persistenza-marina-abramovic/
(2) S.Freud, Il sogno, Mondadori, 1988.

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