“Poesia come vita”: è questa la sensazione che si coglie leggendo la silloge bilingue greco-italiano di Zosi Zografidou, Γι’ αυτό το λίγο (Per quel poco), Atene, 2019, ove il dato centrale che trasuda dai versi è il fatto che l’unica e assoluta protagonista della sua poesia è la vita nelle sue varie forme, anche le più misteriose e segrete. La poesia della Zografidou è assunzione della vita nel suo essere e nel suo divenire, una dilatazione dell’anima che partorisce una parola che si fa linguaggio, una poesia che parte dalla vita, legge la vita e la sublima dentro un “universo metafisico”, non tanto per rispondere ad un “bisogno speculativo” o “lirico-estetico”, ma per aprire la poesia alla verità.
Zosi Zografidou (Salonicco,1962), – che è ordinario di Storia e Traduzione della Letteratura Italiana e Direttore del Dipartimento di Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università ‘Aristotele’ di Salonicco, nonché Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e Presidente Onorario della Società Dante Alighieri di Salonicco -, ha alle spalle un percorso poetico-letterario connotato dalla pubblicazione di studi su scrittori italiani come Dante, Boccaccio, Quasimodo, Pirandello, Pasolini, Verga e Tabucchi, nonché traduzioni di testi classici di letteratura e critica letteraria, tra i quali Il Principe di Niccolò Machiavelli (Salonicco, 1999- 2006); anche nel campo della poesia si è già fatta apprezzare per le sue raccolte Viaggio in un’Italia senza tempo (Murcia, 2011; Roma, 2014 – Premio ‘Ninfa Galatea’, Acicastello 2011) e Porte e finestre d’Italia (Roma, 2015).
Leggendo la sua raccolta Per quel poco, che è stata premiata nel 2019 a Matera, nell’ambito del Premio Internazionale “Dal Tirreno allo Ionio”, si percepisce subito che il background del corpus poetico affonda le radici nel mondo classico greco e contemporaneo (Montale, Quasimodo e Ungaretti sembrano tra i suoi poeti italiani preferiti), e che la sua versificazione guarda la vita con atteggiamento idillico e realistico, con tenui affacci e intagli contemplativi:
“Dal finestrino del soffittο
guardo la luce.
Viaggio verso tempi lontani dimenticati
con il fumo del camino sui tetti innevati.
In paesi della favola
mi portano i pensieri…”
(Guardo la luce)
L’autrice sente, insomma, la poesia come parola necessaria, come testimonianza d’anima, come colore d’alba; i suoi versi indugiano sull’esegesi delle sue commozioni senza alcuna enfasi, concorrendo alla creazione di un clima di meditazione nel quale rifulgono le sue esaltazioni e il suo tormento, i suoi smarrimenti e le celeri pulsazioni del suo cuore:
Giocano
le luci sulle pietre.
Riscaldano il cuore
travagliato
dalla malinconia
della notte solitaria.
Gli sguardi
imprigionati
degli alberi
come ombre
si nascondono
e si perdono nel buio.
(Solitudine nel cortile del castello)
La poetessa guarda ai dettagli della vita e ricrea nei versi la luce e l’atmosfera dei luoghi dove corrono le veloci cure della sua intimità: “Senza voce/ silenziosamente/ ti amerò. Come tu /silenziosamente/ con una lacrima /sigilli /l’amore”, in Senza voce; poi si affida all’ispirazione della musa e comunica a se stessa e agli altri stupori e umori, perplessità e paure con una scrittura fatta di sogno e che porta il calore della vita, il taglio dell’intelligenza laboriosa, degli affetti appassionati.
“…Sei tra le pagine del libro.
Una nuvola.
Una utopia.
Un sogno.
Passione che rinasce.
Sei presente.”
(Sei presente)
I versi di questa raccolta sono davvero una creazione artistica, sono un quadro nel quale rifulgono i colori dell’anima di una poetessa che riflette, ricorda e rivive, con serena spiritualità, sentimenti profondi e sinceri, emozioni e immagini che nulla hanno di alchemico o di quell’arido sperimentalismo ove, a volte, la dissacrazione della filologia coincide con una mortale aridità.
Qui, nella raccolta di Zosi Zografidou Per quel poco, sono rispettate la lingua, l’immaginazione e ancor più le leggi del cuore; il verso si snoda in slanci figurativi e in attenti e misurati sviluppi ritmici, e dal formarsi del codice lirico scaturiscono una catena fonica e un ordinamento morfosintattico che evidenzia il superamento dei limiti spazio-temporali dell’esistenza umana.
Silenzio assoluto.
Immagini, senza senso.
Sogni irrealizzabili.
Passa il tempo
corre l’orologio del muro
le rondini viaggiano in cerca del sole.
Hai imprigionato
il sorriso
negli occhi
in un mare in tempesta.
Girovago nel passato
cercando esasperata
quello che ha congelato il tempo.
(Passa il tempo)
E così, la poetessa reinventa il reale proiettando l’io interiore in una coralità esistenziale, dandoci l’impressione di sentire in tutte queste notazioni il “Karumi” delle haiku nipponiche di Matsuo Basho, non solo per la levità con cui è filtrata la dolcezza delle immagini, ma per la capacità della poetessa di esprimere con parole d’uso quotidiano ma prive di retorica, bellezze ed emozioni che si scoprono in momenti rivelatori nella vita reale.
L’essenzialità poetica è eccezionale: in ogni lirica compaiono parole comuni, recuperate nella loro limpidezza e purità per testimoniare, con la loro severa nudità, la profondità con cui la Zografidou vive la sua ricerca interiore mentre allunga lo sguardo “In cerca di sole /. Sorrisi, parole…”; mentre respira “la brezza del mare assediato dal sole” e attraversato da “voli di gabbiani al tramonto”.
L’autrice canalizza, dunque, la propria vocazione lirica in un simbolismo che affida al linguaggio il compito di trasfigurare emozioni e sentimenti, nonché di valorizzare parole e suoni, generando una polisemia ed esprimendo il movimento e l’armonia della musica anche col silenzio: “…I poeti / cantano le parole del silenzio. / Ali hanno dipinto. / Libertà dell’anima…”, in Porte chiuse.
Il genotesto della raccolta poggia chiaramente su segmenti tematici offerti da esperienze varie, dal mondo degli affetti umani, dalle occasioni quotidiane dell’esistenza, dagli incontri, da visioni contemplative della natura, da gioie e dolori, illusioni e aspirazioni, e la geometria delle immagini che ne deriva è fortemente analogica e allusiva. Il “pianto”, le “parole funebri”, il “canto degli uccelli”, il “fruscio dei fogli”, il “suono della pioggia”, il “profumo dei fiori”, l’“aroma della terra”, il “fumo nero”, le “carte ingiallite”, i “mari di stelle”, i “raggi nell’oscurità”, le “parole ubriache”, il “fine dell’inesistenza”, la “canzone di cigno”, “croci e silenzi”, il “dolore muto”, etc… hanno l’eloquenza delle vissute meditazioni di Zosi Zografidou nel raccoglimento dei suoi anni, delle larghe sue atten¬zioni ai vari livelli delle realtà; costituiscono il mondo immaginifico entro cui si dilata l’introspezione della poesia, introspezione che conosce un’evoluzione di stati d’animo identificati ora col buio ora con il silenzio, ora con il pianto ora con la speranza, ora con il sogno ora con la solitudine, ora con un canto struggente d’amore:
“…Sei cambiato dall’ultima volta
che ti ho visto.
I cappelli imbianchiti.
Scolciature le rughe sul viso.
Il sorriso come se fossi ancora bambino.
Davanti allo specchio di fronte al ricordo
prende vita
di nuovo il nostro bacio che ci lega.”
(Gli specchi)
“Stasera al crepuscolo,
sei venuto a trovarmi,
ero addormentata.
“Amor mio, hai detto, le foglie sono immerse nel giardino,
dalle gocce della pioggia”…
(Al crepuscolo)
“…Solo tu
sulle sponde
del cielo
mi hai dato a bere
nettare degli dei.”
(Nettare degli dei)
“Volevo incontrarti
sentire la canzone
che ho amato
ogni giorno
con te.
Fino che si fosse rotto
il grammofono.”
( Il grammofono)
La poetessa si racconta in versi annotando le emozioni provate, il dolore interiore, il lamento taciuto, la speranza di ripresa giorno dopo giorno, così da riviversi proprio nel sogno insopprimibile dell’amore, e per continuare a stupirsi dell’innamoramento riannodando nei fili della memoria “quel poco” di una “breve canzone di festa / cantata su un sentiero di strada”; “quel poco” fatto di “piccole gioie sentite / che hanno timbrato il ricordo/ per gli ultimi momenti vissuti”; e rievocando, con toni elegiaci ed esistenziali, i grumi di un sentimento che s’innalza nell’etere come dolce ricordo:
“…per quel poco che assomigliava
a illusione, fascino, confusione
e spandeva al cammino amore
nella nebbia oscura
dolce ricordo, divina ubriachezza.
Nel pensiero
Rimani
come un espatrio.”
(Per quel poco )
Il linguaggio è sempre sottile, diretto, dolce e delicato così come le sue emozioni; l’anima della poetessa si meraviglia, diventa un “continuum” di immagini e di similitudini e si dispiega in una narrazione poetica ove il colloquio di volta in volta è rivelativo o concettuale o allusivo, quasi accarezzato dalle parole indispensabili che diventano manifestazione di tenerezza negli accumuli dei ricordi o del sussurro del tempo. La poesia di questa raccolta è, insomma, un vero “atto creativo”, un movimento del cuore e della mente mediante il quale il mondo interiore di Zosi Zografidou, i suoi sentimenti, gli oggetti, le percezioni, le visioni, ogni sussurro, lacrima e quant’altro appartiene alla vita giunge all’essere, cioè diviene espressione di poesia che rivela il senso più vero e profondo dell’esistenza universale, atteso, del resto, che – come scriveva Elio Vittorini – “la poesia è per questo poesia: perché sta legata alle cose da cui ha avuto origine e si può riferirla, se nasce dal dolore, ad ogni dolore…”
Dunque poesia “di” vita, non “sulla” vita, è quella che l’autrice offre ai suoi lettori, dove l’ispirazione gioca un ruolo fondamentale; ella dà l’impressione di scendere dal cavallo grigio della quotidianità e intuire qualcosa dentro che la porta a scrivere, a ritirarsi, a dare alla parola, di giorno o di notte, la sua forza espressiva per interpretare un sentimento che è suo, ma che diventa collettivo, di tutti e che si fa epifania di una essenza metafisica universale.
E’, ancor più, “poesia del cuore” che non cede a superficialità, ad emotivismi retorici, né a verbosità intellettuali; “poesia del cuore”, in cui i percorsi della ragione sono ben marcati, con prospettive di senso e disciplina sintattica. La struttura formale si compone, infatti, di pennellate che assumono tutti i colori della vita; procede quasi a scatti fotografici che colgono istanti, attimi fuggenti, che trasfigurano immagini e visioni che nascono dal profondo dell’anima della poetessa.
Per concludere, possiamo che tutta la poesia della silloge Per quel poco è fatta di idee nelle parole, e rifulge di slanci d’anima nei periodi lirici. È poesia imbevuta, verso per verso, da ciò che stupisce la poetessa: felicità o infelicità, gioia o dolore, stasi o pessimismo, luce o ombra. Se cade la donna nelle trepidazioni e nelle inquietudini del mondo, risorge la poetessa col suo canto d’allodola.
La poesia della Zografidou, che mi ha riportato indietro alla mia raccolta “Guardando lembi di cielo”(1993), è, a volte, fatta di lacrime, ma anche il pianto fa bene (“Et lacrimae prosunt” dice Ovidio); è accarezzata di tenerezze e speranze (“La speranza dell’indomani,/ è festa per me” diceva il poeta francese Rutebeuf); è fatta di luci d’alba (“Nei miei occhi chiusi ha radici l’aurora” cantava Paul Èluard). È fatta di tutto ciò che aiuta a capire, ad amare, a sperare, a credere nel bene e nel riscatto. E’ come quel volo estivo di rondini, che, nell’ebrezza garrula, fanno di mille disegni il cielo, del quale ella sa godere la luce.