La crisi divenuta cronica delle sinistre europee si è materializzata anche nel Regno Unito. Il voto di giovedì scorso si è trasformato in una bruciante sconfitta per il Labour più di sinistra della sinistra britannica: Jeremy Corbyn è stato messo al tappeto dallo sfidante Boris Johnson. I Tory hanno stravinto aggiudicandosi 368 seggi, 42 sopra la soglia per la maggioranza assoluta. Che BoJo vincesse era scritto, che sbaragliasse l’avversario nessuno era disposto a scommetterci. Il povero Roberto Speranza insieme ad altri reduci della sinistra italiana era già con il trolley in mano pronto a volare a Londra per complimentarsi con il tovarish Corbyn con cui battersi per costruire una nuova Europa. Dovrà aspettare. Dunque, dal manifesto rosso “For the many not the few” al ridimensionatissimo “for the few”, 60 sono i seggi lasciati sul terreno dal Partito laburista, il risultato peggiore mai visto. Corbyn, il settuagenario nostalgico del socialismo sovietico, l’uomo che aveva promesso alla working class un cambiamento vero, si è addossato tutta la responsabilità della sconfitta ma non si è dimesso. Il suo corposo pacchetto antiliberista, la nazionalizzazione delle poste, delle ferrovie, della rete idrica, dell’energia, della banda larga, la rottamazione delle privatizzazioni, il fisco aggressivo contro i ricchi, una patrimoniale alle stelle per le aziende, l’abolizione delle tasse universitarie, non è riuscito a convincere molti di coloro ai quali l’ostinato nemico del capitalismo aveva chiesto scusa per il tradimento della Terza via di Tony Blair. A un programma populista troppo a sinistra e riproposizione del vecchio con una punta di isteria, il Paese allergico agli eccessi e all’emozionabilità ha risposto: “No, thanks”. I corbyniani hanno incolpato della sconfitta la Brexit, senza ammettere l’ambiguità dimostrata da Corbyn sulla controversa questione che ha monopolizzato il Paese per tre anni, e hanno sottaciuto le posizioni scandalosamente antisemite del loro leader che le comunità ebraiche non gli hanno perdonato. “I miei amici Hamas e Hezbollah” ha più volte detto il settantenne umiliato alle urne anche per questo. Ora il suo partito dovrà cercarsi un successore, ma chiunque sarà, l’attenzione della Gran Bretagna è per ora tutta rivolta al nuovo inquilino di Downing Street e all’uso che farà della fiducia composita che gli elettori gli hanno concesso. Attuerà l’uscita in breve tempo e nel modo più conveniente possibile? Da globalista convinto e uomo di cultura aperto e fuori dai soliti schemi, da politico carismatico e privo di scrupoli morali eccessivi, non ostacolerà certo la libera circolazione delle persone che a Londra circolano da parecchio e continueranno a circolare come le merci. La Brexit che Johnson non condivide ma che la maggioranza del popolo ha chiesto, non avrà nulla in comune con i sovranismi europei, la Gran Bretagna è sempre stata sufficientemente sovrana, e nello spirito ha poco in comune con la stessa Europa della quale anzi diffida, sentendosi invece naturalmente affine agli Stati Uniti. Cosa implicherà il divorzio dall’Unione europea? C’è chi ha già scommesso che con Boris Johnson la City diventerà una nuova Singapore. Il segnale dato dagli elettori è stato chiaro: aumentare le spese per sostenere la crescita e aiutare le fasce deboli. Conservatore per formazione culturale, sensibile ai cambiamenti e attento alle promesse fatte, BoJo punterà su investimenti ingenti in infrastrutture, sistema sanitario, istruzione e amministrazione pubblica, impegnando fondi pubblici e privati e dimostrando che crescita e welfare sono compatibili. La solidità delle istituzioni e il modello di democrazia non saranno sfiorati da eventuali bizzarrie di un eccentrico, brillante e imprevedibile Primo ministro. E mentre il resto del mondo corre, noi ci trastulliamo con una manovra finanziaria da ridere. blogritafaletti
- 3 Gennaio 2025 -